Trent’anni fa, intervistato sul dilemma se pubblicare o no i volantini delle Brigate Rosse, il massmediologo Marshall McLuhan rispose lapidario: “Staccate la spina”.
Mi sento di rilanciare lo stesso invito alle piattaforme social, luoghi virtuali sui quali a bambini, adolescenti e adulti vengono proposti con martellante insistenza i disvalori d’oggi.
Il culto ossessivo dell’immagine, che trascende il puro aspetto fisico per assurgere a ragione dell’esistenza ormai a tutte le età.
Il facile e spropositato guadagno attraverso la propria immagine. Centinaia di migliaia di euro guadagnati da chi curando in un modo o in un altro la propria immagine, riesce a radunare centinaia di migliaia di followers. Il gregge stordito dei social “cuora” con il fervore dei seguaci di una setta l’ultimo post o video dell’influencer di turno. E molte pecore di quel gregge crescono inseguendo il miraggio di diventare YouTuber, o stella di Instagram, nella convinzione che studiare non serva a nulla.
La condivisione della provocazione a tutti i costi, della trasgressione con implicazioni legali (alcol, sostanze stupefacenti), della violenza e dell’odio.
E soprattutto, disvalore massimo, l’impunità del tutto e la diretta dell’orrore.
La cronaca è zeppa di storie di aggressioni o omicidi filmati e postati sui social. L’ultima di cui si ha notizia è la storia di una 13enne che frequenta una scuola media di Firenze, già presa di mira più volte da una studentessa poco più grande di lei.
La ragazzina è stata accerchiata da un gruppo di sette coetanei, che l’hanno aaggredita, riprendendo il tutto con i telefonini . L’orribile filmato è stato condiviso su Instagram.
I responsabili, tutti giovanissimi di 13 e 14 anni , sono stati identificati grazie a questo filmato e denunciati dalla famiglia della vittima ai carabinieri.
Non è purtroppo il primo episodio di questo tipo, ed è prevedibile che non sarà l’ultimo.
Leggiamo queste storie con un misto di incredulità e disagio, oppure ne prendiamo le distanze – come se questi eventi appartenesse al cyberspazio e non toccassero il mondo nel quale vivono i nostri figli, bambini, preadolescenti o adolescenti che siano. Perché il problema, sia chiaro, ormai riguarda tutte le età.
Il genitore legge allora la notizia e passa oltre. E non si accorge che, con superficialità sconcertante, il suo insospettabile figlio mette likes a post dove si insulta, si dileggia, si prende di mira il compagno “debole” di turno, si mettono alla berlina difetti fisici o si lanciano accuse (o calunnie) all’indirizzo di un professore.
Si chiama bullismo, o meglio cyberbullismo, ed è dilagante. Sembra che più ci si accanisce a spiegarne i pericoli, più i ragazzi ci cascano dentro, dai piedi fino al collo.
Il linciaggio pubblico dell’amico, che è considerato un gioco, e passa quasi inosservato, è l’anticamera del “coming out” della violenza fisica.
E allora lasciatemi azzardare un parallelo “forte”: diciamo che il bullismo è un virus tanto aggressivo e difficile da vincere quanto il coronavirus.
E siccome gli inviti al rispetto delle regole di comportamento etico sui social cadono nel vuoto, invochiamo collettivamente un lockdown di queste piattaforme.
Chiudiamole per un po’, tutte insieme. E i nostri figli, non potendo più mettere likes a casaccio (e a sproposito), o seguire account veramente poveri di contenuti (soprattutto leciti e ispirati al buon gusto), forse riprenderanno in mano un libro ricco di insegnamenti e messaggi positivi.
Quelli che tanti di noi cercano di passare, ma senza evidentemente riuscire a convincerli.
Stacchiamo la spina dei social, in attesa di trovare un vaccino che funzioni contro il cyberbullismo e l’esibizionismo criminale.