
Risale a qualche giorno fa la notizia dell’esecuzione di quattro dissidenti birmani.
Una vicenda ripresa da quasi tutte le testate giornalistiche del mondo.
Sono in calo nel mondo il numero di paesi che ne fanno uso, pur aumentando il numero delle esecuzioni.
Essi cercano di adeguare le loro legislazioni a fattispecie giuridiche ben precise.
“Un allarmante aumento dell’uso della pena di morte ai sensi della legge marziale si registra in Myanmar, dove i militari hanno trasferito l’autorità di processare casi civili ai tribunali militari, che conducono a procedimenti sommari senza diritto di appello. Quasi 90 persone sono state arbitrariamente condannate a morte, molte in contumacia, in quella che appare ampiamente come una campagna mirata contro manifestanti e giornalisti.”
«Una tendenza che non sembra placarsi nemmeno nei primi mesi del 2022», ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di www.amnesty.org
Questo un interessante passo mutuato dal sito giornalistico “www.osservatoriodiritti.it” , a firma Alessandra Boiardi.
Paese di millenaria cultura, di stretta osservanza Buddhista, ha da sempre mantenuto una politica di isolamento.
Come del resto gli Stati confinanti.
Dopo un altalenante schieramento con i giapponesi nel secondo conflitto e poi “Satellite” britannico, nel 1948 ottiene l’Indipendenza.
Basti pensare alla Thailandia, già Siam, che nella sua bimillenare storia non ha mai avuto un dominatore straniero.
Una politica di isolamento, si diceva, e di sussistenza che fonda la propria filosofia di questa macro regione geopolitica.
Laos, Cambogia, Vietnam, Myanmar.
Eppure, tre sono le variabili che hanno fatto di queste realtà geografiche e politiche, soggetti deboli, asservibili, ricattabili.
In uno stato fondamentalmente rurale, basato ancora su un commercio del tipo “un bue per 10 sacchi di riso”, ogni famiglia ha di che sfamarsi.
Quando, però, le condizioni socio economiche producono diseguaglianze , se non carestie, l’oppio viene in aiuto.
Droga largamente coltivata e sintetizzata “ad usum” del ricco Occidente, garantisce introiti maggiori rispetto alla coltivazione degli ortaggi.
Il guadagno è irrisorio, se paragonato a quello dei Signori della droga e i committenti del “nuovo mondo”.
Si legga: “How the military benefits from Myanmar’s growing opium economy” di Patrick Meehan, Phd, Dipartimento di Studi orientali, Universita di Londra.
Il secondo punto riguarda gli aspetti antropologici di questa comunità.
Quasi tutti gli Stati o Monarchie del Sud est asiatico sono divisi in tribù, alle volte alleate, quasi sempre in disaccordo tra loro.
E per mille motivi.
Si pensi all’Afghanistan, non poi così distante, e dilaniato dagli stessi problemi: droga, armi, potere, differenti visioni religiose.
Così in Myanmar, dove, per esempio, la tribù Kharen si è riversata in massa nella vicina Thailandia per sfuggire alle persecuzioni dell’esercito.
Ed è di un paio di anni fa la tragedia dei Rohingya, tribù di religione mussulmana cui la giunta militare ha negato la cittadinanza costringendoli ad una dolorosa diaspora (almeno 400000 su un milione).
E da ultimo dopo la deposizione della Premier Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace, il paese è tornato l’anno scorso sotto l’ennesima guida di una giunta militare.
Questo con l’avallo di Pechino che recentemente ha dichiarato di non voler commentare questioni interne a questo Stato, indipendente.
Chi interessato, scavi e legga della “longa manus” della Cina nel Sud – Est Asiatico, altro punto di natura geopolitica tra il mondo asiatico di matrice comunista – imprenditoriale e affaristica ed il vicino Medio oriente.
Un bel punto da cui partire, come se non bastasse già la presenza in Africa, ed in alcuni Stati dell’Est Europa.