
Da cristiano scrupoloso, quale fu e quale (ancor di più) il Poeta intendeva presentarsi, Dante non palesa il minimo dubbio sulla natura gravemente peccaminosa dell’omosessualità e non esita a prospettare l’applicazione di una severa punizione infernale pure a personaggi che, per altri versi, ben sarebbero stati meritevoli di maggior clemenza, se non addirittura di esplicita approvazione per le loro virtù morali.
In proposito è rimarchevole che l’Alighieri non abbia avuto ad incontrare tra i sodomiti alcun individuo al quale possano esser rimproverate altre colpe o connotazioni comunque negative come, salvo rare eccezioni, avviene per gli altri dannati.
La circostanza, se da un lato sottolinea pesantemente la “sufficienza” di quel vizio per giustificare l’eterna condanna, dall’altro non può non colpire la carenza di altre forme di negatività tra quei particolari soggetti.
Gli accenti accorati dell’incontro con Brunetto Latini ben possono trar ragione dall’affinità spirituale dei due intellettuali; ma la semplice fede politica comune non sembra da sola poter giustificare l’affezione dimostrata verso i tre personaggi del canto XVI dell’Inferno, tanto più che non si tratta degli unici guelfi citati nella Commedia.
Anche trascurando l’infrequente commozione per le loro pene, rafforzata dall’esclamazione iniziale (verso 10) <ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri> peraltro unica a sopravvivere in Dante anche dopo la fine del suo viaggio (v. 12) <ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri> appare comunque singolare l’incoraggiamento, anche questo unico nella prima Cantica, di Virgilio e quindi dell’umana Ragione, che evidentemente non sembra idonea a rinnegare quella “simpatia” (v. 15) <a costor si vuol essere cortese> ribadito dal successivo consenso virgiliano, anche se solo ritenuto dal Poeta in relazione al proprio “impulso” (vv. 47 e 48) <gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ‘l dottor l’avria sofferto> Ancora una volta siamo in presenza di una “singolarità”, perchè in nessun’altra occasione Dante manifesta simile impulso di giungere persino ad “abbracciare” dei dannati, come precisa poco oltre (vv. 50 e 51) <vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto> L’Alighieri non era certo poeta al quale potessero mancare le parole o la capacità di concatenare rime sicchè l’aggettivo “ghiotto” mi pare vada inteso come deliberato riferimento a quel particolare “appetito” che lo spingeva ad abbracciare i tre, per altro virtuosi, sodomiti.
In sostanza gli interi due canti dedicati al peccato “contro natura” danno l’impressione di una velata “confessione” (ben plausibile in persona della sua onestà intellettuale) quanto meno di una tentazione, probabilmente superata da Dante grazie al suo rigore morale e religioso, ma perfettamente compatibile con una personalità di così esasperata sensibilità, di accesa fantasia e di tanto profonda curiosità per ogni esperienza; d’altro canto l’Autore non ha mai fatto mistero di una spiccata tendenza alla sensualità, che lo induce all’umana e benevola comprensione di chi abbia tanto amato pur se con sentimenti illeciti, come per Paolo e Francesca; né vanno dimenticate le sue Rime Petrose in cui l’acuta sensualità lo spinge persino a sfiorare la volgarità.
Alla fine del canto XVI vi è poi il mai chiarito enigma della corda che Dante porta attorno alla vita e che viene consegnata a Virgilio affinché la getti nell’abisso che conduce alle Bolge, così evocando l’ascesa di Gerione, solo in groppa al quale sarà possibile la discesa dei due viaggiatori. Devo dire che arrossisco alquanto nel formulare una mia tesi su di un problema che ha impegnato i più insigni Studiosi dell’Alighieri, ma mi conforta il pensiero che, a volte, la “simplicitas” del dilettante consente di evadere dai limiti consolidatisi nelle Scuole di pur illustri Maestri.
Ricordato che l’autorità di Virgilio si è sempre palesata sufficiente ad ottenere da tutti i custodi infernali la loro pur malevola sottomissione, acquista un significato del tutto particolare che quest’unica volta vi sia la necessità di un “contributo” personale di Dante stesso per far emergere Gerione dall’abisso e così passare da un girone all’altro.
Tutte le ipotesi formulate intorno alla misteriosa corda, che l’Autore porta annodata alla vita, l’hanno interpretata come una sorta di “chiave” necessaria all’ENTRATA al girone successivo, ma non mi consta che alcuno abbia mai considerato il suo abbandono come indispensabile all’USCITA DEFINITIVA da quello in cui si trovava.
Prima di avventurarci nell’ipotesi di questa funzione piuttosto liberatoria che di strumento di passaggio, leggiamo cosa ne dice Dante stesso (vv. da 106 a 110) <Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza alla pelle dipinta. Poscia che l’ebbi tutta da me sciolta, sì come ‘l duca m’avea comandato> E’ dunque la Ragione che riconosce la “inutilità” (ai fini riproduttivi, conformemente alla mentalità medievale per cui tutto doveva avere uno “scopo” universale) della pulsione omosessuale al contrario di quella eterosessuale e che quindi impone a Dante di liberarsi alla fine di qualcosa che questi aveva sempre portato con sé senza mai farvi il minimo accenno sino a questa cruciale circostanza dell’abbandono del girone dei sodomiti; ed è appunto Virgilio che determina la catarsi gettando irrevocabilmente la corda nell’abisso.
Ricordiamo ora le parole del Poeta a proposito della corda: <con essa pensai alcuna volta PRENDER la lonza>. Ma cosa vuol davvero significare quel “prendere” l’animale simbolo della lussuria, sino ad allora negli “intenti” dell’Alighieri? Il termine è ambiguo, in quanto con esso si può intendere catturare tanto per “restringere”, “imprigionare”, “controllare” e “limitare”, ma anche per “tenere” accanto a sé, “disporne” a piacimento, “fruirne” e “profittarne” secondo il desiderio; perché vi sono due opposti modi per “domare” la lussuria: rinunciarvi e darvi sfogo.
Però il senso di quell’intenzione di “prendere la lonza” diventa piuttosto univoco appena si consideri il suo abbandono in una con quello dello strumento che il Pellegrino degli Inferi aveva sino ad allora portato seco.
Come potrebbe giustificarsi la rinuncia alla prima e virtuosa modalità rassegnata? e proprio in quel momento così particolare? La seconda ipotesi invece ben si attaglierebbe ad una definitiva rinuncia alla tentazione di “quel” peccato nel medesimo luogo in cui esso viene punito.