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I Processi di trasformazione dell’Europa Orientale (1989-1991)

| 9 Aprile 2021 | CULTURA

Per conoscere ciò che è accaduto nel biennio 1989 – 1991, che passerà certamente alla storia come il simbolo stesso della tragedia e della straordinaria volontà di vivere
dell’Europa centro-orientale bisogna fare una premessa.

Ad eccezzione della Germania, nessuno stato ex-comunista aveva avuto esperienze costituzionali liberal-democratiche solide e di lunga durata.
Molti di quei paesi, poi, non esistevano nemmeno relativamente al diritto
internazionale, prima di far parte della galassia del comunismo europeo,
sarebbe il caso di parlare di ritorno all’Europa, più che di ritorno alla democrazia.

Alcuni di essi erano soggetti di diritto internazionale già esistenti (la Polonia, ad esempio), altri lo sono diventati tali dopo la fine del comunismo (la Slovenia). Nella maggior parte dei casi si sono realizzate procedure di revisione formale delle Costituzioni vigenti. Il problema, però, non è formale, bensì sostanziale. La validità di quelle trasformazioni viene dalla inequivocabile volontà popolare di uscire non solo dall’ambito del controllo sovietico, ma, proprio su imitazione di quanto stava accadendo nel “paese-guida”, dal comunismo.

La riunificazione della Germania, veniva seguita da altri fenomeni di frantumazione e di fusione in Europa. Nel giro di due anni si erano frantumati il Comecon e il Patto di
Varsavia; dopo l’insuccesso del putsch dell’agosto del 1991 in Russia, alla fine
dell’anno si frantumava la stessa Unione Sovietica. Si frantumava la Yugoslavia e nel 1993 si separava la Cecoslovacchia. Si ristabilivano i paesi dell’Europa Centrale nell’economia mondiale e soprattutto europea; dieci stati ex-socialisti entravano nell’Unione come nuovi stati membri in due ondate di allargamento (2004 e 2007); Slovenia e Slovacchia sono già membri dell’area dell’euro, si è allargata ad est anche la NATO. Attualmente la Banca Europea per la
Ricostruzione e Sviluppo (BERS, o EBRD), istituita nel 1991 per coadiuvare il
processo di transizione, opera in ben ventinove paesi.

Il modello utilizzato quasi ovunque nei paesi della transizione era un modello di economia capitalistica aperta e liberale, che potesse beneficiare degli incentivi del mercato e dei profitti d’impresa. Ma la transizione ebbe luogo in un momento in cui l’iper-liberalismo dell’ideologia dominante di Ronald Reagan e Margaret Thatcher era al suo apice. Sotto l’influsso di questa ideologia, l’istigazione della maggior parte dei consiglieri esteri, il condizionamento del FMI e la Banca Mondiale, e il consenso dell’Unione Eurpea, venne adottato un modello iper-liberale che andava oltre lo stesso
capitalismo Americano.

Erano presenti due modelli alternativi: il Modello Sociale Europeo (adottato da Slovenia ed Estonia); e il modello di socialismo di mercato (adottato da Bielorussia e Uzbekistan). Il modello Americano e il Modello Sociale Europeo erano sistemi capitalistici avanzati, con uno stato di diritto, la protezione della proprietà privata, la garanzia di libertà di associazione e di impresa, con vari gradi di sicurezza sociale e sistemi di welfare, che combinano “regole istituzionali e mercati per determinare i risultati economici”.

“E’ nei pesi che essi attribuiscono rispettivamente alle istituzioni e ai mercati la differenza, non nelle differenze qualitative che dividevano il capitalismo dalla pianificazione di stato”.

L’iper-liberalismo del modello capitalista utilizzato nella transizione post-socialista è suffragato dalle seguenti politiche:
1)apertura immediata unilaterale del commercio estero, frequentemente revocata e quindi prematura; – liberalizzazione eccezionalmente rapida dei movimenti di capitale,
rispetto all’esperienza delle altre economie europee nell’ultimo dopoguerra; –
2) una privatizzazione di massa senza precedenti (eccetto in Ungheria), mediante la distribuzione alla popolazione di buoni gratuiti o a un prezzo simbolico, convertibili in
beni statali o azioni di imprese di stato.
3)una costosa riforma pensionistica da un sistema a ripartizione e benefici definiti (Pay As You Go) a un sistema a capitalizzazione, o “funded”, o a contributi definiti, che portò alla luce una forma di debito pubblico nascosto che avrebbe potuto almeno in parte rimanere sepolto;
4) una imposizione fiscale diretta bassa, uniforme (flat tax) e quindi scarsamente progressiva, sulle imprese e sulle famiglie, senza imposizione sui capital gains (plusvalenze di capitale), ma con maggiore imposizione indiretta;
5)un mercato del lavoro molto flessibile, deboli Sindacati e bassa incidenza di contrattazione collettiva; 6) assenza di meccanismi di consultazione e concertazione
fra partners sociali e con il governo; –
7) una banca centrale non solo indipendente ma eccezionalmente indipendente e sottratta a ogni controllo, e senza alcun coordinamento con la politica fiscale;
8) in generale, un peso dominante dei mercati rispetto alle istituzioni.

Il trionfo dell’iper-liberalismo in Europa centro-orientale ha comportato un annacquamento del Modello Sociale Europeo come risultato dell’allargamento.
Oggi è in corso un’amara ridefinizione a livello mondiale della dottrina iper-liberale, dopo lo scoppio delle bolle delle dot.com, dell’energia e dei prodotti alimentari: dei crescenti squilibri globali; la crisi dei prestiti sub-prime e la successiva crisi finanziaria globale, subito trasmessa all’economia reale; nonché il crescente intervento dello stato per porvi rimedio, con politica fiscale e monetaria espansive, il ri-finanziamento o addirittura la nazionalizzazione delle banche, e incipiente protezionismo sarebbe stato
possible forse introdurre l’alternativa del socialismo di mercato se le leadership comuniste avessero introdotto gli anelli mancanti di quel modello: prezzi di equilibrio,
aperture al commercio estero e tolleranza di proprietà e impresa private.

Questo è grosso modo il modello realizzato in Cina e Vietnam in Asia, e dalla Bielorussia e l’Uzbekistan nella ex-Unione Sovietica.

TAG: Europa Orientale, unione sovietica
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