
Fu il 4 febbraio del 1992 quando il nome di Chavez venne sentito per la prima volta dall’opinione pubblica venezuelana. L’allora tenente colonnello era a capo di un’insurrezione militare che fallì nel tentativo di perpetrare un Colpo di Stato ai danni del Presidente Carlos Andrés Pérez.
Durante il confronto tra militari ribelli e quelli che sono rimasti fedeli all’ordine costituzionale di allora, si è verificato un tragico saldo di oltre 200 persone uccise – civili, in maggioranza – e l’episodio verrà ricordato da due immagini che rimarranno indelebili nella storia contemporanea venezuelana: la prima è quella di un carro militare che oltrepassa le scale del Palazzo di Miraflores (sede dell’esecutivo) e la seconda è l’immagine dello stesso Chavez vestito da militare e circondato dai microfoni che, in quell’occasione, hanno trasmesso una dichiarazione contenente un doppio senso che sarebbe stato capito soltanto anni dopo la sua traduzione.
L’allora leader dell’insurrezione Hugo Chavez avrebbe dichiarato: “Los objetivos establecidos no han sido alcanzados, por ahora”
In seguito, il termine ‘por ahora’ rappresentò lo slogan della campagna elettorale del nuovo movimento posto in essere da Chavez e dai suoi sostenitori per arrivare al Potere. Durante la sua permanenza in carcere fino al ’94 – anno in cui avrebbe ricevuto la grazia da parte dell’allora presidente Rafael Caldera – la frase “Por Ahora” venne scritta sui muri di Caracas e di altri luoghi del Paese, come una specie di codice e mantra che racchiudesse in sé una promessa la cui realizzazione avrebbe contribuito a emancipare i venezuelani dalla disuguaglianza, dalla povertà e dall’ingiustizia sociale.
Una volta liberato dal carcere e fuori dall’esercizio delle armi, Chavez sarebbe stato persuaso da i membri del Foro di Sao Paulo – il Conglomerato di diversi movimenti di Sinistra Latinoamericana – a deporre le armi ed arrivare al Potere tramite le elezioni. In effetti, la campagna elettorale per le Presidenziali di Dicembre del 1998 sarebbe stata caratterizzata da un’irrimediabile esaurimento del bipartitismo che si era alternato nell’esecutivo sin dal 1958 – anno della caduta della dittatura militare di Perez Jimenez – attraverso l’intesa del Pacto de Punto Fijo firmata dai leader dei partiti partecipanti al movimento di insurrezione che ha deposto la dittatura dei militari.
Firmato da Romulo Betancourt, Jòbito Villalba e Rafael Caldera in rappresentanza di Accion Democratica (Partito Socialdemocratico), Movimiento Republicano e COPEI (Partito Social Cristiano), il Pacto de Punto Fijo significava una specie di Conventio ad Excludendum con l’obiettivo di porre le fondamenta di una democrazia stabile attraverso la partecipazione dei partiti più moderati e l’esclusione degli estremi dal gioco politico. Nel caso venezuelano, gli estremi che minacciavano la democrazia erano, da un lato, il militarismo che aveva caratterizzato la vita del Paese sin dalla sua indipendenza nel 1811 e, dall’altro, lo spauracchio di una Rivoluzione Comunista che rientrava nel marco delle probabilità dato l’attivismo dell’Unione Sovietica nel Continente attraverso il finanziamento e il sostegno di movimenti ispirati al marxismo, le guerriglie provenienti dalla Colombia e i satelliti del Comunismo Internazionale in America Latina come lo erano la Cuba e il Nicaragua.
Infatti, la minaccia comunista si è materializzata nel 1967 quando un contingente militare cubano, assecondato da alcuni guerriglieri, è sbarcato nelle coste del Venezuela nel tentativo di invadere il Paese sudamericano. Lo sbarco dell’8 maggio di quell’anno nelle coste dello Stato Miranda obbediva alle mire espansionistiche di un Fidel Castro assetato di risorse e, in particolare, del petrolio venezuelano. Lo sbarco di Machurucuto avrebbe contato sulla complicità diretta di alcuni guerriglieri che si rifugiavano nel colle “El Bachiller” tra cui Fernando Soto Rojas, Trino Barrios e Moises Moleiro. Tutti integranti del Gruppo sovversivo Frente Ezequiel Zamora e partecipanti nel tentativo maldestro di favoreggiare lo sbarco militare cubano. L’esito dell’invasione di Machurucuto sarebbe stata l’interruzione delle già indebolite relazioni bilaterali tra Caracas e l’Avana.
In realtà, anche all’interno del Paese c’erano indizi di lotta armata che rimasero ai margini dei centri di potere senza rischiare di sconvolgere le sorti politiche di Caracas. Un evento che avrebbe scatenato l’allarme sulla presenza di guerriglie nel Venezuela sarebbe stato il sequestro del calciatore argentino Alfredo Di Stefano in occasione di un’amichevole tra il Real Madrid e la nascente rappresentativa nazionale di calcio del Paese.
Nonostante, i paramilitari e i gruppi armati sovversivi, erano sparsi nelle zone più remote del Paese e sostenuti dalla forte presenza delle guerriglieri delle FARC e le ELN nella vicina Colombia. Il Venezuela, dunque, era nel mirino dei movimenti rivoluzionari in America Latina sia per la sua posizione geografica, sia per le sue ricchezze. Questi ultimi però non sarebbero mai riusciti ad attecchire nel Paese.
Successivamente, il Movimento insurrezionale fondato da Chavez avrebbe contato con il sostegno di questi gruppi, da tempo alla ricerca di agganci all’interno delle Forze Armate. Il MBR-200 sarebbe stato fondato il 24 Luglio del 1983, a duecento anni dalla nascita di Simon Bolìvar, attirando a sé le speranze di diversi movimenti di ispirazione marxista e rivoluzionaria. Il Movimento sarebbe nato in contrapposizione al sistema bipartitico di AD e COPEI e, soprattutto, al Pacto de Punto Fijo come nemesi della rivoluzione.
Nato nel seno delle forze armate, il MBR-200 ha stabilito nel 1985 – durante la permanenza di Chavez ad Elorza, Paese nella frontiera tra il Colombia e il Venezuela – i primi contatti con le FARC in un rapporto di collaborazione che si sarebbe approfondito durante il primo mandato di Chavez nell’esecutivo venezuelano.
L’elemento chiave nel Movimento politico fondato da Chavez era il seguente: per la prima volta in America Latina il militarismo nazionalista e la guerriglia marxista si erano messi d’accordo per prendersi il Potere. In altre parole, gli aloni estremi – che prima di allora si combattevano – si erano uniti per attaccare il centro e sconfiggerlo, non più attraverso la lotta armata né i colpi di Stato, ma con le sue stesse armi, ovvero, attraverso le elezioni.
Questo movimento, fondato da militari e guerriglieri che avevano smesso di spararsi a vicenda per unirsi nel nome della revolucion, da lì a poco si è trasformato in un pigliatutto che faceva leva sul malessere sociale, sulla disuguaglianza e sulla crescente frattura tra le élite e il popolo che, in pratica, vivevano già in Paesi paralleli con pochissimi punti di convergenza. Buona parte del lavoro che spettava al MBR-200 era già stato fatto da una classe dirigente incapace di leggere la realtà sociale di quei difficili anni Ottanta caratterizzati dall’aumento delle disuguaglianze, da una crisi economica dovuta al mancato investimento del surplus percepito dalla produzione del petrolio e da una crisi sociale ed economica che alimentava la percezione negativa nei confronti di un bipartitismo che aveva preso per sé tutto lo spazio politico impedendo la partecipazione di terzi attori, ma senza essere in grado di rappresentare una popolazione sempre più frammentata e impoverita, le cui rivendicazioni lasciavano spazio all’odio, alle divisioni e, infine, alla ricerca di un nemico contro il quale sfogare le proprie frustrazioni.
La classe politica e imprenditoriale, ovvero, le élite, costituivano il bersaglio perfetto sul quale versare tutta la responsabilità di una crisi che iniziava ad affacciarsi nella vita del Paese. La strategia vincente ha consistito nel puntare su una frattura latente, quella tra i ricchi e i poveri. In effetti, negli anni che precedono l’elezione di Chavez alla presidenza, poco più del 50% della popolazione viveva in condizioni di povertà.
Ciò non vuol dire che tutti i poveri abbiano votato Chavez. C’era anche un certo sostegno da parte del mondo dell’imprenditoria nonché da parte di alcuni circoli intellettuali, i quali, ormai saturi di 40 anni di bipartitismo, si sono adoperati a sostenere ciò che ritenevano un’alternativa al declino dei partiti tradizionali. Erano tempi di anti-politica nei quali la cosa più conveniente era quella di porsi dal lato opposto dei partiti e dei politici tradizionali.
In seguito, dopo una campagna piena di incertezze, le elezioni del 1998 avrebbero dato la vittoria, per prima volta in 40 anni, a un outsider. Con una partecipazione del 63,5% degli aventi diritto, il candidato per il Polo Patriotico Hugo Chavez, avrebbe vinto le elezioni con 3.673.685 voti, ovvero, con la maggioranza assoluta del 56% dei voti. Sarebbero state le ultime elezioni sotto la costituzione del 1961 dato che il neo-eletto presidente avrebbe dato vita a una Costituente con l’intenzione di riformare le Istituzioni e gli Organi dello Stato.
Negli anni successivi, il Venezuela è stato oggetto di profonde trasformazioni in ambito politico, sociale e culturale. La rivoluzione promessa da Chavez non era soltanto politica, ma totale, e cioè, aveva la pretesa di monopolizzare l’economia, la sanità, l’istruzione e la società stessa fino a monopolizzare l’intera vita del Paese. Più tardi, il concetto di rivoluzione, nasconderà anche la sostanza di un movimento che, utilizzando tutte le risorse dello Stato, cercherà di monopolizzare anche la vita privata delle persone, ricreando una specie di culto messianico intorno alla figura di Chavez.
Ogni cosa detta o fatta dal leader, era giustificata dalla rivoluzione promessa. Ogni opposizione nei suoi confronti non poteva provenire se non dall’élite borghese e dai nemici del Popolo. E il dibattito? era stato annullato da chi, prendendosi tutto lo spazio radiotelevisivo e scatenando l’odio nei confronti di ogni tipo di dissidenza, confessava apertamente il carattere illiberale della propria revolucion:
“…o tú estás con la Revolución, o tú estás contra la Revolución, o tú estás con Chávez, o tú estás contra Chávez”
Queste parole, pronunciate il 23 novembre 2007, rivelavano il carattere illiberale e antidemocratico di una rivoluzione che non ammetteva mezzi termini. La dicotomia amico-nemico di Chavez, del popolo o della revolucion aveva erosionato fino in fondo, una democrazia ridotta al plebiscito e all’eterna rielezione di colui che fece gravitare l’intera politica del Paese intorno alla sua persona, ai suoi desideri e ai suoi sogni di gloria.
Da lì a poco, la revolucion avrebbe esercitato un controllo sempre più ferreo e dispotico su tutti gli aspetti della società venezuelana. Dal controllo sull’economia fino all’ideologizzazione del welfare, dalla coercizione sul voto alla reinterpretazione della storia, dall’annientamento delle opposizioni all’adulterazione del volto di Bolivar per renderlo identico a quello del Presidente, il governo di Chavez è la dimostrazione di quanto danno possa recare la personalizzazione della politica alla democrazia fino al punto di renderla illiberale e, subito dopo, estinguerla.