
La rivalità sino-americana è uno degli aspetti centrali del presente e del futuro della politica internazionale. Emersa platealmente con la cosiddetta guerra commerciale dichiarata dal presidente americano Donald Trump, il cui scopo ultimo è evitare il sorpasso dell’economia cinese su quella americana, la rivalità tra Washington e Pechino non è altro che la concretizzazione nel XXI secolo di una situazione presentatasi innumerevoli volte nel corso della storia. Cioè il confronto tra una potenza egemone e un’altra in ascesa potenzialmente in grado di minacciarne la supremazia.
Ciò avvenne, tra i tanti casi storici, tra Gran Bretagna e Germania a cavallo dei secoli XIX e XX. Rivalità che poi degenerò nel più ampio primo conflitto mondiale.
L’incredibile crescita economica degli ultimi decenni, la competitività delle multinazionali che ora investono in Occidente e offrono prodotti all’avanguardia (si pensi a Huawei ad esempio), l’inedito attivismo del presidente cinese Xi Jinping che mira a rendere il suo paese un protagonista della globalizzazione attraverso l’ambiziosissimo progetto della Belt and Road Iniative (Bri), il tutto rafforzato da un presidente americano in apparenza riluttante a sostenere i costi dell’egemonia e disinteressato all’evoluzione della politica internazionale, sono alcuni degli elementi che hanno contribuito alla diffusione dell’idea secondo cui la Cina sostituirà gli Stati Uniti nel ruolo di superpotenza egemone.
A parte il fatto che tale cambiamento potrebbe facilmente non avvenire in modo pacifico, e comunque comporterebbe un cambiamento radicale del mondo per come lo conosciamo, la Cina non ha affatto, per ora, le carte in regola per infrangere la supremazia a stelle e strisce.
Crescita economica e demografia sono i due principali argomenti addotti da chi sostiene l’approssimarsi dell’egemonia cinese. Tuttavia, queste due caratteristiche sono largamente e palesemente insufficienti per esercitare la supremazia globale.
Analizziamo almeno quattro aspetti che denotano un chiaro divario di potenza e capacità tra la Cina e gli Stati Uniti, rendendo improbabile lo spodestamento dei secondi da parte della prima.
La supremazia militare è un connotato imprescindibile per qualsiasi Stato che ambisce a diventare egemone. Non solo, la supremazia militare deve essere necessariamente esercitata (anche) sugli oceani. Attualmente gli Stati Uniti hanno il dominio assoluto della superficie marittima, con la marina militare americana che ha suddiviso il globo in aree di competenza per ciascuna delle sue flotte. Mentre gli Stati Uniti possono contare su undici portaerei all’avanguardia, la Cina ne ha solo due, mentre una terza sarebbe in fase di costruzione.
La prima portaerei cinese è la Liaoning, una portaerei sovietica ristrutturata e ammodernata comprata dall’Ucraina nel 1998 quando si chiamava Varyag. La Shandong è la prima portaerei realizzata integralmente in Cina ed è stata varata nell’aprile 2017. Tuttavia, per dimensioni e tecnologia queste portaerei sono inferiori a quelle americane. Secondo il think tank americano Center for Strategic and International Studies (Csis) la Cina starebbe costruendo la sua terza portaerei, che sarebbe più grande e moderna delle prime due. Secondo gli analisti del Csis, la nuova portaerei cinese sarebbe più piccola di quelle americane da 100 mila tonnellate ma più grande della francese Charles De Gaulle da 42 500 tonnellate.
Al di là del numero di portaerei, gli Stati Uniti posso contare su numerose basi navali in tutto il mondo. Per esempio, Napoli ospita la base della VI Flotta mentre la V Flotta ha la sua base in Bahrein. Oltre alle innumerevoli basi delle forze armate terrestri, il fatto che gli Stati Uniti abbiano basi navali sparse in tutto il mondo è un altro elemento che sancisce la loro netta supremazia militare sulla Cina. Dal canto suo, Pechino può contare su una sola base militare all’estero. Si trova nel Gibuti, piccolo paese situato nel corno d’Africa.
Un altro importante elemento che svantaggia la Cina è dato dalle caratteristiche del contesto geopolitico in cui essa è collocata. Gli Stati Uniti potrebbero essere considerati un’isola artificiale in quanto, oltre ad affacciarsi su due oceani, non solo non hanno minacce ai confini o tensioni con i paesi confinanti ma sono egemoni nel loro continente dal XIX secolo.
Il fatto di affacciarsi su due oceani, unito all’assenza di minacce ravvicinate in grado di mettere in discussione la sicurezza nazionale, sono due elementi che hanno permesso a Washington di ascendere indisturbata al rango di prima economia mondiale, combattere due guerre globali senza che il territorio continentale venisse sfiorato dai combattimenti e accrescere la propria influenza contemporaneamente nel Pacifico e nell’Atlantico. Il contesto geopolitico cinese non potrebbe essere più diverso da quello americano.
La Cina è circondata da numerosi paesi con cui ha delle dispute terrestri (nel caso dell’India, con cui confina) o marittime (nel caso dei paesi affacciati sul mar Cinese Meridionale e del Giappone). Inoltre, la proiezione della marina cinese nel Pacifico è bloccata dalla presenza di paesi che se non sono ostili (Taiwan) ospitano truppe americane sul proprio territorio (Giappone, Corea del Sud) o come minimo sono politicamente allineati con gli Stati Uniti.
La Cina si affaccia su un tratto marittimo caratterizzato dalla presenza di truppe americane e Stati che oltre ad essere amici degli Stati Uniti sono preoccupati e avversano l’espansionismo di Pechino nel mar Cinese Meridionale. Come se non bastasse, mentre l’unità nazionale degli Stati Uniti è scontata, lo stesso non può dirsi della Cina. Innanzitutto, almeno in linea teorica, le Cine sarebbero due poiché Taiwan ufficialmente è la Repubblica di Cina e Pechino considera l’isola una provincia separatista.
Come scrivemmo in un articolo precedente (che potete leggere cliccando qui), l’ambigua natura di Taiwan e il fatto che la Cina la consideri una provincia separatista sono micce che potrebbero innescare una situazione esplosiva. Inoltre, le due province cinesi più estese geograficamente, rispettivamente Xinjiang e Tibet, sono connotate dalla presenza di movimenti separatisti. In particolare lo Xinjiang negli anni scorsi ha testimoniato attentati terroristici da parte dei gruppi separatisti e manifestazioni con scontri tra le autorità cinesi e la popolazione uigura, etnia turcofona di religione musulmana.
La repressione cinese, attuata anche attraverso i cosiddetti campi di rieducazione, è finita sotto i riflettori della cronaca politica internazionale durante lo scorso autunno. Tale repressione, esercitata in disprezzo dei diritti umani, ha suscitato la condanna pubblica, tra gli altri, del vicepresidente americano Mike Pence. Lo Xinjiang ha per la Cina un importante valore strategico. Non solo permette a Pechino di proiettare la sua influenza sull’Asia centrale ma attraverso questa regione passeranno, nell’ambito della Bri, numerose rotte commerciali e infrastrutture delle cosiddette nuove Vie della Seta che hanno per destinazione l’Europa.
Attraverso lo Xinjiang passa anche il China-Pakistan Economic Corridor (Cpec), il corridoio commerciale che permette alla Cina di trovare uno sbocco sull’oceano Indiano per le sue merci. A quanto detto finora bisogna aggiungere un impressionante divario economico e di sviluppo tra le province costiere e quelle interne. Il contesto geopolitico sfavorevole, in cui spicca la presenza di movimenti separatisti in regioni chiave per la Cina, è un elemento di debolezza su cui Washington potrebbe far leva per attenuare l’ascesa cinese.
A differenza degli Stati Uniti, la Cina non ha neanche un alleato. Da quando nella primavera del 2014 le relazioni tra Russia e Occidente sono state danneggiate in modo molto grave, Mosca ha iniziato a guardare verso Oriente trovando in Pechino un partner sempre più strategico. Negli ultimi anni i legami russo-cinesi dal punto di vista economico, energetico e militare sono aumentati notevolmente come dimostrato dalle esercitazioni militari congiunte dello scorso anno e dalla costruzione del gasdotto Power of Siberia.
Tuttavia, nonostante l’accresciuta collaborazione, Cina e Russia non sono alleati. Stesso discorso vale per il Pakistan, che avendo notevoli legami economico-finanziari con la Cina è un importante partner, ma non un alleato. Gli Stati Uniti al contrario hanno alleati in tutto il mondo. Oltre all’Europa e al Canada nell’ambito della Nato, Corea del Sud e Giappone sono due alleati cruciali che ospitano anche decine di migliaia di soldati americani.
A questi bisogna aggiungere almeno Australia ed India che come gli Stati Uniti vogliono contenere l’ascesa cinese nell’Indo-Pacifico. L’intricata tela di alleanze è strettamente collegata con la supremazia militare americana poiché il fatto di avere numerosi alleati in tutto il mondo permette agli Stati Uniti di proiettare le proprie capacità militari in ogni angolo del globo.
Possibilità che la Cina non può nemmeno sognarsi perché oltre a non avere una forza militare paragonabile non ha nemmeno degli alleati. Per la verità, nel 1961 la Cina ha firmato un trattato di mutua difesa con la Corea del Nord. In realtà però, più che un alleato, per la Cina Pyongyang è innanzitutto uno Stato cuscinetto che la protegge dalla presenza militare americana in Sud Corea.
La Cina dipende in larghissima misura dalle importazioni di risorse energetiche, in particolare petrolio e gas naturale, combustibili fossili di cui è ghiotta consumatrice. La Cina infatti è solo il settimo produttore mondiale di petrolio e il sesto produttore mondiale di gas naturale ma i giacimenti domestici non sono assolutamente in grado di coprire la domanda nazionale.
La scarsità di petrolio e gas naturale, coniugata al fatto che la Cina non controlla le rotte commerciali marittime, potrebbe comportare dei gravi rischi di approvvigionamento. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), nel 2017 la Cina ha importato quasi il 70 % del petrolio e il 35 % del gas naturale dall’estero e queste percentuali sarebbero destinate ad aumentare in futuro.
In più, nel 2017 il 75 % del petrolio e il 15 % del gas importato dai cinesi passavano per lo stretto di Malacca, che si configura quindi come un collo di bottiglia dal valore strategico incommensurabile per Pechino. Per ridurre questa pericolosa dipendenza, la Cina ha iniziato a diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico.
Quindi, la costruzione del gasdotto Power of Siberia, come anche la grande importanza conferita dal governo cinese allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili, vanno lette anche in quest’ottica. Se in conseguenza di un’escalation della tensione tra Cina e Stati Uniti Washington decidesse di chiudere lo stretto di Malacca, per la Cina sarebbe molto difficile far fronte alla domanda di combustibili fossili con fonti alternative.
Questi sono almeno quattro motivi per cui la Cina non è destinata nel breve periodo a soppiantare l’egemonia americana.
Un campo su cui si giocherà una fase importante della partita tra Washington e Pechino è quello delle nuove tecnologie, in primis l’intelligenza artificiale e la sua applicazione nel settore bellico. Secondo l’ex vicesegretario alla difesa americano Bob Work, “sarà la nostra intelligenza artificiale contro la loro. Gli uni penetreranno nel sistema di comando degli altri e distruggeranno tutto. Ti potresti trovare a constatare che le tue armi letteralmente non funzionano”. Dello stesso avviso è l’ex segretario alla difesa James Mattis, secondo il quale le battaglie del futuro saranno combattute “dall’intelligenza artificiale, o da robot che usano armi ipersoniche”.
Ad ogni modo, a prescindere da chi la spunterà in questo settore, il divario di potenza militare e di influenza politica è tale per cui i cinesi difficilmente riusciranno a scalfire il dominio americano nel breve periodo.