Il nuovo anno di politica internazionale è iniziato in modo scoppiettante. Il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato un discorso che ha destato attenzione e preoccupazioni a livello globale. Sono in ballo lo status quo e la pace nell’Asia orientale e questa volta le esercitazioni missilistiche nord-coreane non c’entrano niente.
In un discorso tenuto due giorni fa nella Grande Sala del Popolo a Pechino, per commemorare il quarantesimo anniversario del Messaggio ai compatrioti di Taiwan pronunciato da Deng Xiaoping che diede inizio alla distensione tra Pechino e Taipei, il presidente Xi Jinping ha rilanciato la volontà del governo cinese di riunificare l’isola, considerata una provincia separatista, al resto del paese. Xi vuole perseguire una riunificazione pacifica basata sul principio “un paese, due sistemi” similmente a quanto avvenuto nel caso di Hong Kong. Ma, ed è qui che sta il nocciolo della questione, il presidente cinese si è arrogato anche il diritto di fare ricorso alla forza. “Non facciamo alcuna promessa di rinunciare all’uso della forza, manteniamo l’opzione di ricorrere a ogni misura necessaria” ha asserito Xi. Nella visione del presidente, già segretario del Partito Comunista Cinese e presidente della Commissione Militare Centrale che dirige le forze armate, la questione di Taiwan è una faccenda di politica interna, pertanto qualsiasi nazione straniera deve astenersi dall’interferire. Un messaggio neanche tanto implicito a Stati Uniti e Giappone, Stati che osteggiano maggiormente un’eventuale annessione cinese di Taiwan. Tale questione, irrisolta dal termine della guerra civile cinese nel 1949, non riguarda, ovviamente, solo Pechino e Taipei. Essa rientra nel più ampio grande gioco tra le potenze che si affacciano sul Pacifico e che vede la Cina vestire i panni del revisionista. L’ammodernamento delle forze armate cinesi, in particolare della marina, e le continue tensioni con i vicini che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale sono alcuni degli indicatori del revisionismo cinese che sta portando il Giappone ad armarsi come non aveva mai fatto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dal canto loro gli Stati Uniti hanno individuato già da tempo nella Cina la principale minaccia all’egemonia globale. Washington vuole contenere Pechino e l’attuale guerra commerciale scatenata dal presidente Trump potrebbe anche essere considerata come uno strumento di contenimento dell’inarrestabile crescita economica cinese, che tuttavia sta rallentando.
Taiwan rientra nella prima catena di isole di cui Pechino vuole assicurarsi il controllo per poter proiettare la sua marina nel Pacifico e avere in mano le profittevoli rotte commerciali che attraversano le acque circostanti. Non solo, l’annessione di Taiwan è uno dei passi fondamentali attraverso cui deve compiersi la rinascita della nazione cinese, che dovrà essere completata nel 2049, anno in cui cadrà il centenario della proclamazione della Repubblica Popolare. È questo, in estrema sintesi, il progetto del presidente cinese Xi Jinping, su cui egli sta puntando tutta la sua carriera politica nella speranza di lasciare un’eredità storica paragonabile solo a quella di Mao Zedong. Ma se Xi annettesse Taiwan riuscirebbe nell’impresa in cui Mao fallì. In tal caso il suo prestigio eguaglierebbe certamente quello del padre fondatore della Repubblica Popolare.
Le minacce a Taiwan pronunciate dal presidente Xi sono in linea con quanto affermato da alcuni studiosi ed esperti di Cina. Tra questi vi è Deng Yuwen, studioso di relazioni internazionali, commentatore politico e ricercatore presso il China Strategic Analysis Center Inc. che in un breve saggio pubblicato recentemente ha messo in guardia dalle ambizioni di Pechino su Taiwan. “Xi Jinping è un nazionalista; l’unificazione fa parte del sogno cinese e del sentimento nazionale, come lui li intende […] Taiwan è l’elemento del sogno cinese che Xi considera più importante: non vi è nulla in lui che susciti maggior interesse” afferma Deng Yuwen. Il sogno cinese è l’ambizione del presidente Xi di rendere la Cina una superpotenza globale dal punto di vista economico, militare, finanziario e tecnologico entro il 2049. Il progetto della Belt and Road Initiative, ad esempio, è funzionale alla concretizzazione di questo sogno, che inevitabilmente mina la supremazia globale degli Stati Uniti e mette in stato di allarme i vicini regionali, poiché per realizzarlo la Cina deve accrescere e ammodernare le sue capacità navali e militari in generale.
Deng esclude un attacco cinese contro Taiwan nei prossimi due o tre anni perché questo periodo di tempo “sarà il più difficile per l’economia cinese”. “Xi deve impiegare tempo ed energie per fronteggiare la guerra commerciale con gli Stati Uniti, il che non gli consente di occuparsi d’altro”. Inoltre, vi è l’incognita della riforma dell’esercito promossa dal partito che non è detto che venga portata a termine a breve. Secondo Deng, “se Xi vuole davvero attaccare Taiwan, è più probabile che lo faccia intorno al 2030”. Questa tesi è abbracciata anche da James E. Fanell, capitano della marina militare americana in pensione ed ex funzionario dell’intelligence, che l’ha esposta in un’udienza alla Camera dei Rappresentanti lo scorso maggio. Fanell definisce “decennio della preoccupazione” (decade of concern) il periodo 2020-2030 perché secondo lui in quegli anni la Cina compirà le azioni aggressive finalizzate a soddisfare i suoi scopi strategici a danno degli Stati vicini, nell’ambito della realizzazione del cosiddetto sogno cinese. “Xi Jinping ripete di voler conseguire entro il 2049 la rinascita della nazione cinese. Per allora la Cina dovrebbe aver già terminato la grande impresa dell’unificazione. Per Fanell il ricorso alla forza avverrà tra il 2029 e il 2030: in tempo utile (una ventina d’anni) affinché, entro il 2049, i leader internazionali abbiano dimenticato l’episodio, come dimostra l’esempio di piazza Tienanmen” scrive Deng. Bisogna però ammettere che scatenare una guerra d’aggressione è ben diverso da uccidere centinaia di dissidenti interni.
Secondo il ricercatore cinese, tre variabili potrebbero spingere la Cina ad anticipare la riunificazione di Taiwan: “un marcato peggioramento delle relazioni sino-americane e il fatto che l’appoggio statunitense a Taiwan superi il livello tollerabile da Pechino; una situazione interna a Taiwan che sfugga di controllo, con le forze indipendentiste a dominare la politica dell’isola e un eventuale referendum per cambiare il nome dello Stato; un’opinione pubblica cinese sempre più impaziente per la situazione di Taiwan e la debolezza dei leader”.
Nel caso in cui il governo cinese decida di attaccare militarmente Taiwan, “l’ostacolo principale non sarebbe la resistenza dell’isola, ma l’interferenza delle forze armate statunitensi e giapponesi” afferma Deng. La posizione strategica dell’isola, i timori degli Stati della regione per l’espansionismo cinese, i legami di Taiwan con Giappone e Stati Uniti e la minaccia cinese percepita da Washington sono alcune delle ragioni per cui un attacco cinese contro Taiwan difficilmente risulterà in una guerra circoscritta ai due Stati. Si scatenerebbe, probabilmente, un conflitto armato tra le due maggiori potenze economiche del pianeta, che sono anche la prima e la terza potenza militare, che produrebbe conseguenze inimmaginabili e imprevedibili.