
I negoziati tra l’Unione Europea e il governo britannico procedono a rilento mentre la fatidica data del 29 marzo 2019 si avvicina inesorabilmente. Quel giorno il divorzio tra Regno Unito ed Unione Europea sarà ufficiale, con o senza accordo.
Sebbene qualche settimana fa la primo ministro Theresa May abbia detto alla Camera dei Comuni che l’accordo per la Brexit è stato completato al 95%, qualsiasi cosa ciò voglia dire, rimane ancora un nodo cruciale e particolarmente intricato da sbrogliare: la questione del confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, ovvero il confine che il Regno Unito condividerà con l’Unione Europea.
Innanzitutto è bene chiarire che né l’Unione Europea né il governo britannico vogliono un confine vero e proprio con tanto di dogana, controlli e posti di blocco. Tale volontà trova la sua origine in almeno due ordini di motivi. Un hard border sarebbe il prodotto dell’uscita completa del Regno Unito dal mercato comune e dall’unione doganale. Ciò causerebbe un aumento dei costi e dei tempi per gli scambi commerciali tra Regno Unito ed Unione Europea con conseguenti danni in termini di perdite economiche per entrambi. Il secondo ordine di motivi ha a che fare con la precaria situazione politica dell’Irlanda del Nord dove per decenni si è combattuta una guerriglia tra la fazione repubblicano-cattolica che voleva l’annessione alla Repubblica d’Irlanda e quella protestante-unionista che voleva rimanere nel Regno Unito. Tale conflitto è giunto a termine con l’Accordo del Venerdì Santo firmato il 10 aprile 1998. Il timore è che il confine fisico, fortemente osteggiato dai repubblicani, possa riaccendere la fiamma del conflitto e spezzare il precario equilibrio che ha garantito la pace negli ultimi 20 anni.
Il primo grande problema è il seguente: il governo britannico vuole uscire dal mercato comune e dall’unione doganale ma allo stesso tempo non vuole un confine fisico in Irlanda, come anche l’Ue. Che fare quindi per risolvere questo cruciale problema?
È qui che entra in gioco il cosiddetto backstop. Definire il backstop (termine che è stato preso in prestito dal gergo del baseball e del cricket) con esattezza non è cosa semplice. Si potrebbe definirlo come una clausola di assicurazione che eviti l’incertezza e la confusione al confine nel caso in cui, giunti al 29 marzo 2019, Regno Unito ed Ue non avessero trovato un accordo. In tal caso il problema del confine irlandese rimarrebbe pericolosamente insoluto e il backstop agirebbe come una sorta di pezza per tamponare temporaneamente la situazione, nell’attesa che venga trovato un accordo definitivo per la Brexit. Praticamente, con il backstop l’Irlanda del Nord rimarrebbe nell’unione doganale e nel mercato comune e così facendo si scongiurerebbe, per il momento, il problema del confine fisico. Ma su questo passaggio la situazione si complica ulteriormente perché sull’applicabilità del backstop vi è una sostanziale differenza di vedute tra Regno Unito ed Ue.
La proposta di Bruxelles è quella appena scritta, ovvero un backstop limitato all’Irlanda del Nord. L’esecutivo britannico invece vorrebbe un backstop esteso a tutto il Regno Unito ma temporaneo, cioè con una data di scadenza prefissata. La proposta di May trova origine nell’opposizione interna al suo governo che il Partito Democratico Unionista (Dup) nord-irlandese ha mostrato nei confronti della proposta dell’Ue. Il Dup è un piccolo partito che ha però un’importanza inestimabile per Theresa May in quanto il suo governo si basa proprio sulla coalizione tra partito conservatore e Dup. Se l’appoggio degli unionisti nord-irlandesi venisse a mancare l’esecutivo May cadrebbe. La primo ministro ha quindi un forte interesse a soddisfare le richieste dei suoi alleati di governo. Il Dup osteggia la proposta dell’Ue in quanto essa non risolverebbe affatto il problema del confine ma semplicemente lo sposterebbe. Invece che essere in Irlanda, sulla terra, il confine sarebbe in mare, a metà via tra Irlanda e Gran Bretagna. Inoltre, la proposta di Bruxelles garantirebbe all’Irlanda del Nord uno status speciale rispetto al resto del Regno Unito e ciò non piace affatto al Dup. Oltretutto questo aspetto potrebbe avere ripercussioni anche in Scozia e in generale per quanto riguarda l’integrità del Regno Unito. Abbiamo parlato dei rischi di disgregazione del Regno Unito dovuti alla Brexit in un articolo precedente che potete leggere qui.
Come se non bastasse, la proposta di May è osteggiata dai conservatori più euroscettici e dall’Ue. I primi sono totalmente contrari al fatto che il Regno Unito continui ad essere vincolato alle regole comunitarie anche dopo il 29 marzo 2019, la seconda invece crede che tale proposta permetterebbe a Londra di godere illegittimamente dei vantaggi e dei privilegi dell’appartenenza al mercato comune e all’unione doganale senza però appartenere all’Ue.
Vi è poi la divergenza sulla temporaneità del backstop proposto da Londra. L’Ue e il governo irlandese si oppongono fermamente su questo punto. Secondo Bruxelles, Londra non può stabilire unilateralmente una data di scadenza per il backstop il quale dovrebbe rimanere in vigore a tempo indeterminato finché non si giunge a un accordo definitivo per la Brexit. Dello stesso avviso è il governo irlandese. Lunedì il primo ministro irlandese Leo Varadkar ha avuto una conversazione telefonica con Theresa May mentre il vice primo ministro e ministro degli esteri Simon Coveney si è confrontato con il ministro britannico per la Brexit Dominic Raab. Varadkar e Coveney si oppongono con forza alla proposta di Londra sulla temporaneità del backstop, sposando la posizione dell’Ue. Mercoledì il primo ministro irlandese ha affermato che secondo lui le possibilità che si giunga a un accordo sulla Brexit entro la fine di novembre sono poche.
Come si è potuto evincere da questo breve articolo, la questione del confine irlandese è decisamente complessa, controversa ed intricata. Tale questione dimostra chiaramente quanto la politica interna britannica si intrecci con lo svolgimento delle trattative tra Downing Street e Bruxelles e viceversa. La Brexit sta spaccando il Regno Unito. Il referendum del 2016 divise in due parti quasi uguali l’elettorato britannico mentre il faticoso processo di negoziazione ha portato alla luce le divisioni all’interno dello spettro politico e tra le varie nazioni del Regno. Il risultato più lampante di tutto ciò è la debolezza del governo, il quale può contare su un appoggio interno precario e mutevole essendo costretto a negoziare di volta in volta il prossimo passo da fare.
Theresa May quindi si trova a dover negoziare sempre su due livelli: quello europeo e quello interno. Qui deve vedersela innanzitutto con gli alleati di governo, le multinazionali favorevoli a una soft Brexit e l’ala più intransigente del partito conservatore che invece vuole il contrario. La debolezza dell’esecutivo May produce delle ripercussioni sullo stato di avanzamento dei negoziati con l’Ue, i quali procedono inevitabilmente a rilento e con più difficoltà.