Oggi, finita la sarabanda elettorale, si spengono le luci sulla fiera di tutte le esibite vanità e si apre l’usuale pausa di riflessione, che dovrebbe consentire ai meno decisi di scegliere a chi affidare i destini del Paese nei prossimi cinque anni. Non ho memoria di confronti più sgangherati ed inconcludenti di questo e nutro una fortissima preoccupazione per il futuro, considerato il livello di impreparazione, ed inattitudine a disegnare una direzione di marcia, di cui hanno fatto sfoggio quasi tutti i protagonisti della stagione politica che stiamo vivendo.
L’insoddisfazione della gente comune, che esiste, ma viene artatamente ingigantita dalla propaganda e da un’informazione che interagisce con essa, può rivelarsi decisiva ai fini del successo di partiti e movimenti che propongono, con grande spregiudicatezza, traumi di sistema e soluzioni irrealistiche ai tanti problemi degli italiani.
Ed ogni appello alla ragionevolezza, al pragmatismo, al senso di responsabilità, sembra cadere nel vuoto, a fronte di una rabbia sorda, di un senso di frustrazione generato dalla dieresi tra i propri desideri e la difficoltà di realizzarli. Il “piove, governo ladro” continua ad essere d’attualità ed è sempre più di moda mettere sul banco degli imputati l’Europa matrigna, che ci tratterebbe come una colonia negletta, da sfruttare e mortificare con imposizioni assurde.
Il timore che il voto del 4 marzo prospetti solo un’alternativa tra l’ingovernabilità ed il trionfo della protesta, popola di ambigui fantasmi i miei sonni di cittadino non coinvolto nei giochi di potere, ma pensoso per il futuro del suo Paese.
Chiedersi dove stiamo andando e cosa potremmo compromettere, nell’ansia di destrutturare i fragili equilibri esistenti e di interrompere i faticosi cammini, per gettarsi in corse forsennate, ritengo sia il minimo sindacale per chi si appresta ad esercitare il più delicato dei diritti, quello di voto.