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Sulla mia generazione. Interviste e storie di vita

| 19 Gennaio 2023 | ATTUALITÀ

È con questa domanda che si conclude la prima parte dell’articolo (Sulla mia generazione. Parte Prima): che significa sperare?

Più ci penso più capisco che è difficile rispondere. Sperare, forse, per noi giovani può voler dire confidare che si realizzi qualcosa che sentiamo e desideriamo nel profondo, qualcosa di migliore per noi e, perché no, per il mondo intero. Sperare può significare attendere che questo accada e, nel mentre, fare in modo che accada attraverso l’azione. Sperare, in sintesi, è mantenersi giovani per tutta la vita, conservando la forte e fragile sensibilità che nasce dal saper ascoltare gli altri e cercare di migliorare il proprio ambiente.

Io, e in molti come me, vogliamo infatti continuare a vivere preservandoci giovani come siamo adesso, con un forte senso di apertura, libertà, speranza e desiderio di cambiare. E questo non significa non voler crescere e maturare, ma semplicemente sognare di vivere con il bello e, quando ci troveremo nel mondo degli “adulti” o nel mondo del potere, riuscire ad ascoltare e dare spazio a chi sarà più giovane e inesperto di noi.

Scuola e letteratura. Come si fa a parlare di libri?

Penso spesso al mio amore per i libri e la scrittura. Chi lo ha fatto sbocciare sono state le maestre delle elementari e, in particolare, una professoressa delle medie. Chi lo ha represso altrettanti professori. Non intendo fare critiche, anche perché so di essere stato fortunato nel mio percorso. E so quanto è difficile il ruolo dell’educatore. La mia critica è più alla scuola in generale e al suo modo di rapportarsi al mondo delle lettere in un sistema del tutto superato e che non mi sento in colpa a definire “morto”. La letteratura, invece, è qualcosa di vivo.

Come possiamo accettare di presentare una poesia o un romanzo, a maggior ragione quando si entra nel Novecento, insistendo solamente sulle figure retoriche, sullo stile, sulla critica, sul contesto storico e sulle parole che gli autori di quel manuale hanno voluto comunicare?  Non dico che non sia utile e necessario conoscere queste cose, anzi, lo è, ma ho sentito troppo poco spesso, che ne so, rivolgere negli ultimi quindici minuti di spiegazione domande come: “E voi, ragazzi? Che cosa avete sentito leggendo questa poesia? Quali sono i vostri sentimenti? Avete mai vissuto qualcosa di simile?”.

Ogni tanto ci si dimentica che la letteratura nasce dalla vita, che è calda come il sangue e verde come un prato, e che non deve in alcun modo ridursi a un universo freddo e fatto di distanza. In una classe di venti persone, poi, è ovvio che non tutti percepiscano con amore e piacere la letteratura. A maggior ragione queste persone vanno avvicinate con la passione.

Un esempio. Come vivere il mondo classico

Ricordo con gioia una professoressa delle medie che, per aiutarci a memorizzare Iliade e Odissea, ci faceva recitare le parti appena studiate come se fossimo a teatro. Ognuno di noi interpretava la scena e il personaggio che più gli era piaciuto. Ci divertivamo un mondo. Eravamo Achille, Ulisse, Agamennone, Briseide, Polifemo, Elena e tutte le divinità greche. Discutevamo, ognuno diceva la sua e quello che ne risultava, oltre alla recita, era un’analisi critica piena di punti di vista e scambi d’opinione diversissimi.

È anche così che si impara: divertendosi, immaginando, discutendo, mettendo in pratica, interpretando. E’ così che la letteratura non si esaurisce e che le storie avranno un significato che porteremo dentro per tutta la vita. Se invece presentiamo i libri o la poesia come qualcosa di vecchio, lontano dai nostri giorni e intrappolato in schemi, pagine, libri, regole e nozioni, sarà sempre più difficile far crescere i giovani come individui liberi, indipendenti e appassionati. Qualcuno ci riesce da solo, per conto suo, o perché ha dei bravi professori, ma se la scuola come sistema fosse davvero presente nel processo educativo-umanistico avremmo tutti da guadagnarci.

Raccontare se stessi è raccontare il mondo

Partendo da una canzone degli Who, “My generation”, sono finito a raccontare un sacco di cose. Ho ricordato alcuni momenti della mia vita e ho espresso un’opinione su tematiche a me care. Perché? Perché raccontarsi è raccontare il mondo, e condividere pezzi di sé significa inserire, ognuno attraverso il proprio contributo, un piccolo tassello all’interno di un puzzle più grande che si chiama Storia. Ogni persona è importante e ogni discorso è indispensabile.

In questo inverno dalle temperature altalenanti mi sono infatti accorto, fin da quando sono nato, di essere circondato da persone davvero in gamba, che costituiscono un reticolo di narrazioni potenzialmente infinito. C’è chi è agli inizi della propria carriera, chi sta scrivendo il proprio destino da protagonista e chi, al riposo dopo una vita di lavoro, guarda il mondo in una prospettiva più lenta e delicata. C’è chi soffre e chi ha sofferto, chi è felice e chi non sa cosa aspettarsi dal futuro. C’è chi vive in Italia e chi, lontano da casa, si sposta continuamente. C’è chi cerca, chi trova e chi ancora non conosce il proprio essere.

I’m just talkin’ ‘bout my g-g-generation

Quello che intendo fare è dare voce a tutte queste storie nella speranza di creare un grande racconto che comunichi qualcosa di questo difficile periodo storico. A parlare saranno per lo più persone che non sono note al grande pubblico, perché la Storia la fanno tutti. Sono gli anni ’20 del XXI secolo. Siamo nel pieno di crisi economiche, migratorie, demografiche e sociali. Appena usciti da una pandemia e geograficamente vicini ad eventi catastrofici, abbiamo capito che i problemi di paesi lontani sono ormai anche i nostri. Da giornalista, vedere come la gente si muove in uno scenario così complesso, anche soltanto in relazione alla propria quotidianità, non può che essere irresistibile.

Io, dalla mia, non intendo più parlare come ho fatto finora. Ogni tanto capiterà qualche piccola intrusione, questo è sicuro. Ogni tanto, se dovessi sentirne il bisogno, scenderò nei ricordi e vi dirò dei legami con gli intervistati, ma a parlare saranno unicamente gli altri. Il senso delle interviste è il senso che daranno le persone alle loro vite e alle loro azioni: I’m not trying to cause a big s-s-sensation, I’m just talkin’ ‘bout my g-g-generation (non sto cercando di suscitare un grande scalpore, sto solo parlando della mia generazione).

TAG: Generazione
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