
Le proteste che da settimane interessano Hong Kong hanno raggiunto ieri il loro apice, nell’attesa che un qualche nuovo atto di protesta porti ancora più in alto l’asticella della tensione tra la popolazione e il governo locale, criticato per essere troppo filocinese.
Il momento clou della protesta si è avuto quando i manifestanti hanno sfondato l’ingresso del consiglio legislativo (il parlamento di Hong Kong) utilizzando un ariete improvvisato. Una volta aperta la breccia, la folla è entrata nel palazzo e ha occupato l’aula del consiglio legislativo che è stata imbrattata e messa a soqquadro.
I manifestanti, in buona parte giovani, indossavano elmetti da cantiere e mascherine bianche per non farsi identificare, mentre in numerosi tenevano aperti gli ombrelli, simbolo delle proteste del 2014, le più grandi prima di quelle di queste settimane. Tra i manifestanti, come di consueto in queste occasioni, giravano numerosi cronisti e giornalisti dotati di macchina fotografica e telecamere, vestiti con gilet gialli.
Giunti nell’aula del consiglio legislativo, i manifestanti hanno sfogato la loro rabbia nei confronti di un governo regionale che considerano troppo vicino a Pechino e troppo poco autonomo. I muri sono stati sporcati con graffiti. Pure la bandiera di Hong Kong è stata imbrattata di spray nero, mentre un manifestante sventolava orgogliosamente la bandiera della Hong Kong colonia britannica.
A proposito, la data dell’assalto al palazzo del consiglio legislativo non è affatto causale. Il 1° luglio infatti è il giorno in cui Hong Kong è tornata alla Cina dopo un secolo e mezzo di dominazione britannica. Correva l’anno 1997. La presa del parlamento regionale nel giorno del 22° anniversario del ritorno alla Cina fa emergere più di un interrogativo sui sentimenti che la popolazione di Hong Kong prova nei confronti di Pechino e soprattutto getta una coltre densa di dubbi sul futuro delle relazioni tra l’ex colonia britannica e la Repubblica Popolare.
Tra le scritte che hanno sporcato l’aula del consiglio legislativo ve n’era una in particolare che fa riflettere: “Hong Kong is not China”. Le manifestazioni oceaniche di queste settimane hanno fatto capire al mondo intero – e forse anche alla classe dirigente comunista di Pechino – che davvero Hong Kong non è la Cina, o comunque è un pezzo di Cina radicalmente diverso da tutto il resto.
Il colonialismo britannico, che si è protratto lungamente fino alla soglia del nuovo millennio, ha fatto assaporare il gusto della libertà e della democrazia alla popolazione della metropoli costiera. E il regime politico della Repubblica Popolare è ciò di più lontano dalla democrazia. Una cultura politica radicalmente opposta, di tipo occidentale, è ciò che differenzia Hong Kong da Pechino.
Infatti, la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste è stata la controversa legge sull’estradizione che avrebbe permesso di estradare con facilità in Cina i cittadini di Hong Kong condannati per reati. Secondo Song Yongyi, docente di storia moderna della Cina all’università della California, nato a Shangai nel 1949, la legge sull’estradizione avrebbe permesso al governo di “legalizzare un atto illegale” cioè “il rapimento di presunti oppositori”.
La popolazione ha percepito questa legge come un’inaccettabile interferenza di Pechino che avrebbe minato la libertà dei cittadini della ex colonia. Detto altrimenti, il tentativo della Repubblica Popolare di utilizzare le sue consolidate modalità repressive a Hong Kong come nel resto della Cina.
Ma siccome Hong Kong non è come il resto della Cina, avendo sperimentato in una certa misura democrazia e libertà politiche, sono scoppiate proteste oceaniche inedite. Nel frattempo, la questione rimane ancora irrisolta. La decisione – presa dalla governatrice Carrie Lam – di sospendere l’iter legislativo della legge sull’estradizione non ha affatto soddisfatto i manifestanti. Secondo il professore Song Yongyi la soluzione è solo una: “Carrie Lam si deve dimettere”.