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Andy Wearhol, una mostra che ripercorre la nascita e lo sviluppo della Pop art

| 27 Aprile 2019 | CULTURA

Andy Wearhol celebrato nel Complesso Vittoriano a Roma per il novantesimo anniversario della nascita, con circa 170 opere, ripercorre attraverso le sue creazioni, gli inizi della Pop art, l’evoluzione innovativa di uno degli artisti più importanti del ventesimo secolo.

L’esposizione organizzata dal Gruppo Arthemisia, Eugenio Falcioni & Art Motors srl e curata da Matteo Bellenghi, omaggia il genio trasgressivo, pittore, scultore, sceneggiatore, produttore, che si afferma come il maggior rappresentante della pop art, ispirandosi ai prodotti commerciali, quotidiani dalla pubblicità alle marche dei mass media, alla moda, al cinema e ai fumetti.

L’uso particolare della serigrafia con la serie e la ripetizione della stessa immagine, la spersonalizzazione, l’arte come prodotto del consumismo, identificheranno la sua opera che “va consumata”.

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La serie dei barattoli Campbell’s Soup, la stessa immagine riprodotta diverse volte modificandone il colore, che ritraggono personaggi del cinema, cultura, politica, da Marilyn Monroe, Mick Jagger, Elvis Presley, Mao Tse Tung, Muhammad Alì, la copertina del disco dei Velvet Undergroun con l’icona della banana.

Presenti nella sua arte anche immagini d’incidenti stradali e sedie elettriche. Tra le opere più famose dell’artista: Campbell’s Soup Cans, Double Elvis, The Shot Marilyns, Che Guevara, Death Disaster, Liz.

Andy Warhol pseudonimo di Andrew Warhol, nato Pittsburg nel 1928 da una famiglia modesta originaria della Slovacchia, dimostra sin dall’infanzia l’inclinazione artistica, e crescendo si orienta verso l’arte pubblicitaria.

Dopo la laurea negli anni ‘50 e ‘60 collabora come grafico pubblicitario con Vogue, Glamour, disegna scenografie, organizza le prime mostre. Conosce il pittore Frank Stella e trae ispirazione da Lichtenstein per dare forma alle sue creazioni.

Fonda nel 1962 la Factory, un laboratorio creativo e luogo d’incontro di molti personaggi famosi, anche noto per le feste trasgressive tenute da Warhol e apre la rivista Interview. Sostiene gruppi musicali i Velvet Underground, finanziando il primo disco e disegnando la copertina. Ritrae Dick Tracy, la Popeye, Superman, la coca cola, le lattine di zuppa, che diventano il simbolo del ventesimo secolo.

I prodotti utilizzati come la coca cola, la zuppa, usati e alla portata di tutti sono messaggi con cui esprime il suo pensiero e sulla scelta delle famose lattine di minestra Warhol racconta: “La mangiavo abitualmente. Sempre lo stesso pranzo ogni giorno, per vent’anni, se non mi sbaglio, tutte le volte la stessa cosa. Qualcuno ha detto che la mia vita mi ha dominato: mi è piaciuta questa idea.” Produce anche due cortometraggi “Sleep” e “Empire”.

Negli anni ’70 scrive “La filosofia di Andy Warhol…” e realizza molti ritratti di personaggi famosi Liza Minelli, Brigitte Bardot, J. Lennon, Bob Dylan, Salvador Dalì, Truman Capote e tanti altri, frequentatori della Factory. Dipinge usando la Polaroid e ritraendo i grandi miti, ritocca e modifica l’immagine.

Per i ritratti maschili usa lo sfondo color carne, per quelli femminili il rosato. Negli ultimi tempi ripropone alcune opere del Rinascimento di Paolo Uccello, Leonardo da Vinci come “The last Supper” (L’Ultima cena), e i padri fondatori d’America. Opere classiche dissacrate e alleggerite dalla sua visione pop per renderle fruibili a tutti. Si dedica anche alla scultura con le scatole di detersivo Brillo.

La critica in questo periodo si mostra poco benevola, sostenendo di aver barattato l’arte per il denaro. “Alcuni critici hanno detto che sono il Nulla in Persona e questo non ha aiutato per niente il mio senso dell’esistenza. Poi mi sono reso conto che la stessa esistenza non è nulla e mi sono sentito meglio”.

Warhol poliedrico, ironico, enigmatico, introverso, timido e molto mondano, ama presenziare alle feste, capace di frequentare cinque party in una serata “Andrei all’inaugurazione di qualsiasi cosa, anche di una toilette”.

Accompagnato dalla sua polaroid si isola ritraendo, evitando di comunicare, osservando e nutrendosi come spettatore degli altri. D’altronde Warhol, conosciuto anche per il suo voyeurismo, per la particolare attenzione nel fotografare le parti intime e i piedi, la passione nel disegnare le scarpe, l’amore per i gatti ne possiede venticinque e per essere un accumulatore compulsivo.

Infatti, la sua casa di cinque piani quasi spoglia di arredo è  piena di prodotti di ogni tipo dall’elettronica, ai giocattoli, alle scatole, riviste e tante tele e poster.

Particolarmente legato alla cultura americana e alla sua nazione che lo portano a dire pur viaggiando per il mondo: “La cosa più bella di Tokyo è McDonald’s, la cosa più bella di Stoccolma è McDonald’s, la cosa più bella di Firenze è McDonald’s. Pechino e Mosca non hanno ancora nulla di bello”.

Warhol non ama raccontarsi, schivo tanto da far pensare che neanche i più intimi lo conoscano a fondo. Eppure, Warhol non è solo questo, ma un uomo molto religioso, praticante, dedito alla beneficenza e grazie al suo aiuto molti artisti sono riusciti a emergere e a farsi conoscere.

Muore nel 1987, dopo una operazione alla cistifellea, per un’aritmia cardiaca. Buffo pensare che Warhol,  riuscito a scampare a un attentato  nel 1968  da parte di Valerie Solanes,  riportando lesioni gravi,  viene meno per un banale intervento.

Non vuole epitaffi sulla tomba tranne la scritta Finzione, che esprime al meglio il mondo del cinema, della pubblicità che ha frequentato. Warhol resta l’emblema di un’epoca con la sua arte ripetitiva e impersonale, il suo personaggio come essenza della sua opera.

La sua parrucca argentata, lo sguardo fisso,  assente, che liberandosi sembra dargli consistenza per diventare altro, come creatore che si svuota volutamente a favore dell’arte. “Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha bisogno ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona idea dargli”.

TAG: Antonietta Pezzullo, Arte, Mostra
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