Nell’ultima settimana l’Arabia Saudita è stata al centro delle cronache di affari esteri in modo alquanto insolito. I mezzi d’informazione, quotidiani e telegiornali, negli ultimi giorni, hanno dedicato molto più spazio del normale alle notizie provenienti dal regno dei Saud. Tali notizie non hanno riguardato gli svolgimenti delle indagini sull’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi né il coinvolgimento saudita nella guerra civile yemenita, che in questi anni ha ucciso migliaia di persone.
La scorsa settimana è scoppiata una polemica per il fatto che la finale di Supercoppa Italiana di calcio tra Juventus e Milan si giocherà a Gedda, una delle città più grandi dell’Arabia Saudita. Il motivo principale della polemica è il fatto che l’accesso allo stadio da parte delle donne è discriminato. Le donne potranno sedersi solo in una parte specifica dello stadio, riservata esclusivamente a loro, e dovranno stare rigorosamente separate dagli uomini. La notizia ha sollevato numerosissime critiche nei confronti della Lega Serie A da parte di attivisti dei diritti umani e personalità di spicco del settore sportivo e della politica. Ieri il presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Coni) Giovanni Malagò ha dichiarato che “sul caso della Supercoppa a Gedda c’è il trionfo dell’ipocrisia da parte di tante persone” mentre il ministro dell’interno Matteo Salvini ha bollato la decisione di giocare a Gedda come “schifezza”. La seconda notizia proveniente dall’Arabia Saudita ha a che fare con le riforme promosse dal principe ereditario Mohammad bin Salman, il quale vuole rinnovare e ammodernare l’immagine del regno. Ieri è entrata in vigore una riforma per la quale le donne saudite d’ora in avanti riceveranno un messaggio sul cellulare nel caso in cui venga emessa una sentenza di divorzio che le riguarda. Questo provvedimento mette fine alla pratica del cosiddetto divorzio segreto, ovvero quando il marito decide di divorziare dalla moglie a sua totale insaputa. A quanto pare, tuttavia, la moglie verrà a conoscenza del divorzio solo quando la sentenza è stata emessa. La terza notizia è un fatto di cronaca riguardante una 18enne saudita, Rahaf Mohammed Al-Qunun, che è scappata dalla sua famiglia ed è stata fermata all’aeroporto di Bangkok mentre tentava di raggiungere l’Australia. La ragazza avrebbe detto di aver rifiutato l’islam e ha chiesto di non venire rimpatriata in Arabia Saudita perché è sicura che la famiglia la ucciderebbe. Pare che la ragazza in passato abbia subìto abusi psichici e fisici da parte dei familiari.
Il minimo comune denominatore di queste tre notizie è la questione dei diritti delle donne in Arabia Saudita, in particolare la pesante discriminazione che esse devono subire. Tale discriminazione, che non ha eguali in nessun altro paese, è stata portata davanti agli occhi dell’opinione pubblica. Ma, e qui sta il punto, bisogna fare attenzione a non confondere una parte con il tutto. Dire che in Arabia Saudita i diritti delle donne non sono riconosciuti né tutelati è indubbiamente vero, ma si tratta di un’affermazione imprecisa e parziale, poiché in Arabia Saudita i diritti umani tout court non sono riconosciuti né tutelati. In realtà, molto più semplicemente, il concetto di diritti umani non esiste affatto nella cultura saudita. Indignarsi e porre l’accento sulla discriminazione delle donne è comprensibile, ma non senza prima aver sottolineato che quello delle donne è una parte del problema che riguarda tutti i sudditi sauditi, a prescindere dal sesso. Questo dettaglio, nient’affatto irrilevante, viene spesso omesso in favore di un’enfasi sulla discriminazione delle donne.
Diritti civili e politici non esistono mentre chi non professa la fede wahabita è considerato un infedele. Ma ciò che rimarca in modo ineluttabile la distanza della cultura saudita da quella occidentale dei diritti umani sono i metodi utilizzati per eseguire la pena di morte. A parte il fatto che l’Arabia Saudita è uno dei paesi che fa il maggior ricorso alla pena capitale, ciò che colpisce, e inorridisce, sono i metodi medievali impiegati dalle autorità saudite. La decapitazione è molto probabilmente la pratica più utilizzata, seguita dalla lapidazione. Inoltre, le decapitazioni non vengono condotte nelle carceri o in celle apposite, bensì in luoghi pubblici. Deera Square è una piazza nel cuore della capitale Riad dove vengono eseguite le decapitazioni. A volte i corpi senza testa delle vittime vengono esposti in pubblico. La pena di morte per decapitazione viene inflitta anche per reati come stupro, rapina a mano armata, adulterio, omosessualità e traffico di droga. Non c’è bisogno di compiere un omicidio per essere condannati alla decapitazione, che viene rigorosamente effettuata con una spada e in uno spazio pubblico di fronte a una folla il più grande possibile. Le pene previste dalla giurisdizione saudita comprendono anche l’impiccagione, la flagellazione e l’amputazione degli arti. Protestare contro il governo è un altro reato che prevede condanne corporali violente.
Il caso più emblematico e rivoltante è avvenuto lo scorso agosto a La Mecca, città santa dell’islam sunnita, quando un uomo, accusato tra gli altri crimini di omicidio, è stato decapitato e il suo corpo crocifisso dopo l’esecuzione. Non è la prima volta che il cadavere di un condannato viene crocifisso dopo essere stato giustiziato, e probabilmente neanche l’ultima.
Quando lo Stato Islamico raggiunse il suo apogeo, tutti si indignarono e inorridirono nel momento in cui si venne a sapere che gli uomini del califfato eseguivano decapitazioni in pubblico nel centro di Mosul. Alla luce dei metodi barbari utilizzati dai miliziani di Daesh, la campagna militare condotta dalla coalizione a guida statunitense per sconfiggerlo sembrò essere rinvigorita da una giustificazione storica. L’Isis andava sconfitto non solo per garantire la sicurezza nazionale, ma anche per debellare dalla faccia della Terra quel rigetto della storia che si permetteva di usare pratiche medievali nel XXI secolo, manifestando un totale disprezzo per i diritti umani. L’Occidente dichiarò guerra ai cosiddetti tagliagole dell’Isis. La rabbia generata da quelle brutalità poteva essere placata solo da un incremento della forza militare per sconfiggerlo. L’Arabia Saudita utilizza gli stessi metodi dell’Isis eppure nessuno si sogna di organizzare una coalizione militare in nome della tutela dei diritti umani, ovviamente. Anzi, i governanti occidentali, con il presidente degli Stati Uniti primo di tutti, vanno a Riad a stringere la mano ai regnanti sanguinari e ci fanno affari d’oro. Questo per dire, per chi avesse ancora sciocchi dubbi in merito, che i diritti umani sono una bandiera di cui l’Occidente si fa fiero portatore solo quando ne ha convenienza politica. La difesa dei diritti umani da parte dei governi in politica estera raramente è fine a se stessa. Spesso è una maschera che serve a coprire interessi nazionali occulti. Ad ogni modo, si può affermare con certezza che la difesa dei diritti umani, o anche della democrazia se è per questo, non è mai assoluta, ma sempre condizionata. E il caso dell’Arabia Saudita ne è il perfetto esempio. Ma questo è un altro discorso.
La prossima volta che vi indignerete per le donne saudite che allo stadio devono sedersi negli spalti riservati, abbiate la coerenza di fare lo stesso per tutti quei sauditi che subiscono pene capitali medievali.