Non si trovano i voti per formare un governo. L’ultimo che ha provato a proporre una riforma costituzionale, invero pessima, ha distrutto un partito. Eppure c’è oggi più che mai bisogno di una modifica della Carta, che la difenda da chi dovrebbe tutelarla. Chiamatela controriforma, se preferite.
Uno dei punti fondamentali del programma del centrodestra è la revisione dei trattati europei, impegno la cui serietà (rispetto agli slogan senza seguito degli “altraeuropeisti” di sinistra e degli “sbattipugnisti” del PD) si misura nella individuazione di un “piano B”, rappresentato dal principio del “recupero di sovranità” (che “appartiene al popolo”) attraverso la “prevalenza della nostra Costituzione sul diritto comunitario”. Questo “piano B”, tuttavia, potrebbe scontrarsi o con disposizioni introdotte nella Costituzione che ne hanno parzialmente l’iniziale la coerenza (una su tutte: l’art. 81, Cost.), o – più spesso – con posizioni della Corte Costituzionale deboli, quando non addirittura acquiescenti, rispetto all’evidente aggressività dell’ordinamento giuridico dell’UE.
Di quest’ultimo problema si è avuta recente dimostrazione pratica in relazione ad un grave conflitto fra norme comunitarie e disposizioni interne, non a caso in materia di impianto sanzionatorio a tutela delle imposte raccolte dallo Stato a favore dell’UE. La Corte di Giustizia UE, con sentenza dell’8 settembre 2015 relativa alla causa C-105/14 (c.d. sentenza Taricco 1), condannava l’Italia per la vigente (all’epoca dei fatti) disciplina della prescrizione dei reati tributari. Secondo i giudici, la previsione di un termine massimo per il raggiungimento di una condanna definitiva pur in presenza di atti interruttivi determinava la sistematica impunità delle frodi carosello in materia di IVA (tributo in parte versato all’UE); il giudice penale avrebbe dunque dovuto – a certe condizioni, di assai complessa verifica: presenza di una “violazione grave” e della “impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive contro le frodi gravi in un numero considerevole di casi” – disapplicare il combinato disposto dell’art. 160, u.c., e dell’art. 161, c.p. e pronunciare sentenza di condanna anche in relazione a un reato che, secondo il diritto italiano, avrebbe dovuto considerarsi prescritto.
La pronuncia della Corte di Giustizia UE si scontrava in modo frontale col divieto di irretroattività della legge penale e col principio della riserva di legge in materia penali dell’art. 25, c. 2 , Cost.: il sig. Taricco non avrebbe ragionevolmente potuto prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione avrebbe imposto al giudice italiano di disapplicare gli artt. 160, u.c., e 161, c. 2, c.p., in presenza delle “specifiche condizioni” indicate dalla corte di Giustizia; inoltre, le regole di diritto enunciante nella sentenza non sono idonee a delimitare la discrezionalità giudiziaria, poiché non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza le succitate “specifiche condizioni”.
La Corte Costituzionale, investita del problema, avrebbe dunque dovuto verificare la (non) compatibilità della pronuncia della Corte di Giustizia UE con i “principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale [italiano], cioè con i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali” (dei cittadini), e dunque considerare incostituzionale la pronuncia del giudice europeo sulla base della “!teoria dei controlimiti” (C. Cost., n. 238/2014; C. Cost., n. 232/1989; C. Cost., n. 170/1984). Invece, ha inopinatamente richiamato in causa, per un’ulteriore sentenza interpretativa, la stessa Corte di Giustizia, così sottintendendo un superamento della teoria dei “controlimiti” sulla base sia della tesi della “europeizzazione” delle “tradizioni costituzionali” degli Stati membri ai sensi degli artt. 4, c. 2, e 6 del TUE, sia, soprattutto, del principio secondo cui “il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato” (CGUE, sentenza 26 febbraio 2013, C-199/11, Melloni, § 59).
Paludato in mezzo ad una complessissima questione di diritto processuale, l’ordinanza di rinvio della nostra Corte Costituzionale certifica l’ultimo passo verso il completo “riconoscimento del primato del diritto dell’Unione… ai sensi dell’art. 11, Cost.”. Si legge infatti nell’ordinanza: “il primato del diritto dell’Unione… riflette… il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo… nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, § 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri“.
In realtà, l’art. 11, Cost., parla di “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, e “in condizioni di parità con gli altri Stati”. Non di primauté di un ordinamento straniero, non di rinuncia a spazi di sovranità. Quanto al riferimento alla “pace” e alla “giustizia”, in relazione all’Istituzione che ha ridotto alla disperazione il popolo greco, sembra di sentire un esponente di Potere al Popolo. Ben diversa risulta la strada intrapresa dalla Corte Costituzionale tedesca nella celeberrima sentenza del 30 giugno 2009, con cui ha bensì ritenuto conforme alla Legge Fondamentale l’adesione al Trattato di Lisbona, ma ha posto requisiti molto stringenti al processo di integrazione proprio per garantire il rispetto della sovranità del popolo tedesco, che rischierebbe altrimenti di essere svuotata.
A fine 2017 la nuova pronuncia della Corte di Giustizia (sentenza Taricco 2), che si discosta dalle conclusioni dell’avv. generale Yves Bot (nozione autonoma di prescrizione a livello di ordinamento europeo; prevalenza di questo ordinamento anche rispetto alle norme costituzionali dei Paesi membri; svalutazione del significato normativo dell’art. 4.2 del TUE) per tenere un atteggiamento più cauto e dialogante. A dimostrazione che anche la scarsa fermezza della nostra Corte Costituzionale spaventa, o quanto meno rende più caute, le fragili istituzioni europee; figurarsi un governo che rimetta al centro l’interesse nazionale. Tuttavia, la posizione dialogante, per non dire farisaica, del Giudice italiano permette alla CGUE di fare mezzo passo indietro e mezzo passo di lato. “Per quanto riguarda gli obblighi derivanti dal principio di legalità dei reati e delle pene, occorre rilevare, in primo luogo, che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, a proposito dell’articolo 7, § 1, della CEDU, che, in base a tale principio, le disposizioni penali devono rispettare determinati requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto riguarda tanto la definizione del reato quanto la determinazione della pena…“: il principio di legalità non è collegato all’art. 25, c. 2, Cost., ma alla CEDU, cioè a un Trattato internazionale. “In secondo luogo, occorre sottolineare che il requisito della determinatezza della legge applicabile, che è inerente a tale principio, implica che la legge definisca in modo chiaro i reati e le pene che li reprimono… In terzo luogo, il principio di irretroattività della legge penale osta in particolare a che un giudice possa, nel corso di un procedimento penale, sanzionare penalmente una condotta non vietata da una norma nazionale adottata prima della commissione del reato addebitato…“.
Cosa manca in questa ricostruzione? Manca una attenta valutazione del profilo astrattamente più divisivo, cioè il principio della “riserva di legge” in contrapposizione al principio, più soft, della determinatezza (con ciò aprendo l’ennesima breccia a principi di common law in un ordinamento di civil law come quello italiano); manca la sottolineatura del diritto dei singoli Stati di valutare la prescrizione come istituto di diritto sostanziale e non, come fa l’ordinamento europeo, come istituto di diritto processuale (con ciò permettendo agli interpreti più europeisti di considerare mutata anche in Italia la qualifica di tale istituto a seguito dell’approvazione, nel 2017, della Direttiva PIF). Manca in sostanza, ancora una volta, l’evidenza dell’importanza dei “controlimiti”.
E allora, per dirla con Lenin, che fare?
Proporre l’impensabile, cioè una modifica dell’art. 11, Cost., che vieti espressamente le cessioni (anziché le limitazioni) di sovranità e che costituzionalizzi i controlimiti. A difesa della nostra sovranità da chi ritiene opportuno di far giudicare la volpe sul destino delle galline.