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No, l’Accademia della Crusca non ha reso “cringe” una “parola italiana”

| 22 Gennaio 2021 | ATTUALITÀ

Forse qualcuno non ne è consapevole, ma le lingue sono assimilabili a degli organismi viventi. Nascono, crescono, si modificano continuamente e, in alcuni casi sfortunati, muoiono. Qui non ci interessa quest’ultima eventualità, ma piuttosto la vitalità delle lingue, soprattutto nell’ambito lessicale, quello che riguarda le parole. Un tema che in questi giorni è tornato di attualità per un dibattito innescato da una parola analizzata sul sito dell’Accademia della Crusca nella sezione “Parole nuove”. Si tratta di cringe che da qualche anno, seppure di origine inglese, viene utilizzata anche in Italia. Un vocabolo che ha trovato nei social media e nella rete la strada per ritagliarsi un posticino nel vocabolario di molti giovani italiani.

Fin qui, niente di straordinario: succede in continuazione che parole nuove vengano inventate (ma per rimanere nella lingua, non basta questo: occorre che i parlanti, cioè tutti noi, le usino sovente), così come accade che parole di altri sistemi linguistici diventino popolari in uno stato che ha una lingua differente. Si parla in questi casi di prestiti linguistici: alcuni descrivono una porzione di realtà per cui una lingua non dispone di un termine specifico (pensate in italiano a tecnicismi tecnologici come mouse); altri invece si accostano a termini già esistenti (pensate ad esempio a meeting e riunione) e non essendo propriamente necessari tecnicamente vengono chiamati prestiti di lusso.

Cringe, in diversi suoi usi, rientra decisamente nel secondo gruppo perché significa imbarazzo o imbarazzante. Intorno a questa parola negli ultimi giorni c’è stato un certo clamore mediatico non privo di inesattezze e titoli fuorvianti. C’è chi parla di una parola che diventa italiana grazie a una sorta di certificazione dell’Accademia della Crusca e chi rileva un’entrata ufficiale tra i vocaboli italiani.

Una volta condivisi sui social, questi articoli hanno innescato un’ondata di sdegno (anche) su diversi gruppi social dedicati alla lingua e alla linguistica. Una levata di scudi soprattutto da parte di chi vorrebbe una lingua tutta congiuntivi (anche laddove non ci vorrebbero, a onor di grammatica), futuri anteriori e trapassati remoti. Un’indignazione che fa leva anche su sentimenti di protezionismo linguistico che non sempre sono comprensibili.

Reazioni già viste in passato in occasioni analoghe, ma che spesso non tengono conto di alcuni fenomeni alla base del funzionamento delle lingue.

Il punto di partenza per esprimere un’opinione consapevole – attenzione, “consapevole” – su questi temi è sempre quello con cui abbiamo iniziato questo articolo: le lingue cambiano e lo fanno quasi esclusivamente grazie a chi le usa, cioè tutti noi.

Un termine come petaloso fa molto parlare di sé, sì, ma se poi non viene usato come aggettivo, semplicemente sparisce. Uscire il cane e i verbi di moto usati in modo transitivo sono diffusi in alcuni italiani regionali del sud Italia. Si tratta di un fatto. Poi possono non piacere o convincere un abitante di Treviso, ma nessuno gli impone di usarli e tendenzialmente nessuno li insegnerà come standard linguistico italiano ai suoi i figli. Ma se in un futuro noi tutti ritenessimo questa soluzione più efficace, probabilmente a distanza di anni i verbi di moto usati in modo transitivo diventerebbero uno standard. Dopotutto l’italiano sul piano lessicale è pieno di soluzioni oggi percepite come standard ma che arrivano dai dialetti (che sono però cosa diversa dagli italiani regionali). Pensate a parole come grissinopizzaformaggio e rubinetto. Chi riuscirebbe a intuirne l’origine dialettale? Oggi tutti noi le consideriamo italiane al 100%.

Due considerazioni, per finire: come ci ricordano dalla stessa istituzione, l’Accademia non pubblica un proprio dizionario ormai da molti anni. Non le è propria quindi l’attività lessicografica che in qualche modo, selezionando quali parole meritino di finire nel dizionario, decreta cosa è diventato italiano (e su questo processo si potrebbe discutere a lungo). In secondo luogo la Crusca non dà certificazioni alle parole e non sdogana proprio un bel niente; sì, pubblica sul suo sito consulenze linguistiche e prende posizione in determinati dibattiti – spesso istituzionali – in cui la lingua è coinvolta. Ma non ha l’attitudine rigidamente normativa che molti italiani erroneamente le riconoscono.

E nel caso specifico di cringe, sarebbe sufficiente leggere la pagina introduttiva alla sezione del suo sito in cui se ne parla. Proprio qui, infatti, è specificato a chiare lettere che “Il fatto che la redazione [del sito, ndr] dedichi una scheda a una determinata parola in nessun modo significa che l’Accademia della Crusca ne promuove l’ingresso nel repertorio delle parole effettive dell’italiano, dal momento che questo può avvenire soltanto in modo “naturale”, sulla base delle normali dinamiche di funzionamento delle lingue”.

Quindi sì, cringe in questo caso potrebbe essere usato: ma in relazione al tempo e le energie profuse per indignarsi per qualcosa che di fatto non è accaduto.

TAG: Accademia della Crusca
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