
di Lorenzo Matassa
Dicono che le cose, a volte, nascono così.
Sono le coincidenze che fanno “tutto”.
E quel “tutto” è ciò che mai pensavi potesse accadere.
Se non ci credi, guarda un po’ quel che accadde a Clare Torry.
So bene che il suo nome non vi ricorda nulla, ma vi aiuterò io a ricordare se solo avrò in prestito la vostra fantasia per intraprendere questo cammino all’indietro nel tempo.
Non dobbiamo neppure andare troppo lontano, visto che ci fermeremo al 1973.
Di terra e di mare, invece, ne sorvoleremo un po’ per approdare in Inghilterra.
È lì che accadono, del resto, tutte le cose più incredibili…
Un tale, Richard Wright chiama una giovane donna accanto a sé per accompagnarlo, con la voce, in poche note.
Il signor Wright è il pianista di un gruppo musicale: i Pink Floyd.
A dirlo in italiano, il loro nome – Fluido Rosa – fa pensare alle perdite mestruali.
Invece, allude al colore che assume l’eroina una volta che l’ago ha penetrato la vena.
È l’intorbidimento del liquido che può scorgersi nella siringa prima che il pistone esploda la miscela chimica – dritto dritto – al centro del cervello.
Si fanno chiamare come il liquido che si iniettano.
E si definiscono psichedelici. Bontà loro.
Hanno un successo strepitoso e non solo perché quel liquido è il “fluido” di un’intera generazione, ma perché la loro musica ti proietta in un’atmosfera siderale.
Uno dei loro tre dischi già pubblicati ha nella copertina una mucca.
Il titolo evoca scenari universali: “Atom HeartMother“.
Era come dire che il battito circolatorio del mondo nasceva nell’invisibilità.
L’assonanza inglese tra il cuore (Heart) e la terra (Earth) confondeva i possibili significati.
Insomma, nessuna fede e nessun Dio era dato scorgere in quel titolo…
Già. Ma la mucca a cosa esattamente alludeva?
A nulla. La foto era costata trenta misere sterline e per questo era stata scelta.
Nella sua sconvolgente normalità, la mucca svettava tra altre migliaia di copertine.
Quell’immagine diventò ipnotica per milioni di compratori che scelsero il disco.
Il bovino frisone e la musica psichedelica di una generazione si univano.
Per sempre. Indissolubilmente.
Era forse questo inaspettato successo a muovere la nuova idea di Richard Wright allorché chiamò l’ignara e sconosciuta, Clare Torry, al suo fianco.
Dicono che la donna si presentò agli studi di registrazione di Abbey Road, a Londra, senza avere neppure l’idea di chi l’avesse chiamata e perché.
Sembra che vi andò solo perché le erano state promesse trenta sterline e la somma era appetibile in un tempo di magra sorte.
Strano.
Uguale prezzo avevano pagato per la foto della mucca.
I ricchi menestrelli del fluido rosa pagavano tutto a trenta sterline…
Clare si avvicinò al tastierista e gli chiese cosa avrebbe dovuto cantare.
Neppure lui lo sapeva, perché ciò che aveva appena composto non aveva spartito né canto.
“Non so…”
Disse l’uomo muovendo le dita, fluidamente, sul pianoforte.
Pensò un poco e provò a suggerire, a se stesso più che a Clare, la risposta.
“Non saprei proprio dirti… penso a qualcosa sulla morte…”.
“Sulla morte?” replicò la cantante incredula.
“Sì. Perché no? Proprio sulla morte. Stamattina entrando negli studi di registrazione il portiere parlava proprio di questo.
Della sua morte.
Diceva che non aveva alcuna paura di morire e che non c’era alcun motivo di avere paura per un accadimento così naturale…”.
Clare sbirciò gli occhi del pianista ancora più incredula di prima.
“Mi avete fatto venire qui per cantare un requiem?”
I sorrisi invasero la sala di registrazione.
“Non è proprio così, Clare” – provò a convincerla il compositore.
E, poi, continuando il suo percorso di pensiero chiarì:
“Tu mi hai chiesto di sapere cosa avresti dovuto cantare e io non ho nulla per spiegarti ciò che chiedi perché io stesso non ho avuto il tempo di trasporre le note su uno spartito e apporvi anche solo un accenno di lirica. Ecco tutto.
Prova ad improvvisare sulle note che ascolterai e – se proprio a qualcosa devi pensare – prova a meditare sulla morte, sul destino naturale di ogni essere umano e sulla paura di questo viaggio nell’infinito che nessuno sa se è dentro o fuori di noi.
Beh… per trenta sterline è giusto non chiederti altro…”.
Sembra che Clare Torry abbia tratto un lungo respiro e abbia chiuso gli occhi.
Non udì, nemmeno una volta, la base musicale che avrebbe dovuto guidarla.
I primi accordi del pianoforte risuonarono nella sala.
Le note di Richard Wright si staccarono da terra come frammenti di immortalità.
E, in quello stesso momento, Clare comprese ciò che Richard le aveva suggerito di fare.
Doveva riporre la sua anima all’interno di una navicella di pensiero e, con quel vettore, proiettare la sua voce verso l’infinito.
Clare cantò.
Tirò fuori la voce dal luogo più profondo di sé stessa.
Chiese alla carne di farsi anima.
La sua tonalità incrociò la vertigine in una specie di sospesa troposfera.
Vi si disperse e vi si ritrovò. Salendo e scendendo su scale armoniche impossibili.
Intrise il suono della sua femminilità. La fertile essenza che genera il futuro.
Dalla naturalità della morte, la soprano raccolse l’anelito immenso alla vita.
Per sole trenta sterline e senza neppure sapere come fare, Clare consegnava al suo secolo ed ai secoli a venire la grandezza di “The great gig in the sky“.
“Il grande carro” (questo il titolo voleva ricordare) si accendeva , per sempre, nel firmamento musicale divenendo una luce per generazioni.
Si racconta che Clare uscì dagli studi di registrazione non contenta del suo contributo.
Era delusa con se stessa.
E avrebbe pure rifiutato il promesso importo di trenta sterline se il bisogno non l’avesse obbligata ad accettarlo.
Passò poco tempo e l’album vinilico dei Pink Floyd, “The dark side of the moon“, in cui si trovava il pezzo con la voce di Clare Torry, vendette più di cinquanta milioni di copie.
Vi dono, allora, il mio epilogo:
“Tutto” è frutto del caso e, giocando con la morte, ci si può ritrovare tra le mani la vera immortalità…