
Elena Loewenthal è una narratrice e studiosa di storia e letteratura ebraica nata a Torino nel 1960. Con le sue opere, le sue curatele e le sue traduzioni di testi sia della tradizione ebraica sia di scrittori israeliani contemporanei, fin dagli anni ’80 contribuisce in prima linea alla diffusione e alla trasmissione della cultura ebraica in Italia e nel resto del mondo.
In un suo noto libro, L’ebraismo spiegato ai miei figli, edito da Bompiani nel 2002, Elena Loewenthal racconta in toni semplici e leggeri alcuni significati di una delle più antiche culture religiose della nostra Storia. “Queste pagine”, scriverà nella postfazione, “non sono un’introduzione all’ebraismo, nè tanto meno un manuale, dotato di qualsivoglia ordine o pretesa di completezza. Sono parole sparpagliate fra la testa e il cuore, fra gli occhi del corpo e quelli della mente, come si direbbe in ebraico. Ho cercato di spiegare cosa significhi essere ebrei, armata non di certezze bensì di sentimenti, dubbi, esperienze di vita e di lettura. Non sono attendibili, queste mie parole, se non in quanto voci che sento dal profondo, e dopo averle sentite provo a estrarle, raccontandole. Ai miei figli e a chi voglia ascoltare. Tutto qui.”
Nel libro dunque non troveremo un’impostazione manualistica o didattica, che cerchi di spiegarci l’ebraismo in ogni suo punto, bensì una serie di racconti e aneddoti sulla pazienza millenaria di un popolo che come pochi altri, nonostante la disperazione che ha più volte incontrato lungo il suo cammino, ha saputo mantenersi fedele alla propria identità.
Gli ebrei, ci spiega la Loewenthal, costretti a disperdersi un po’ in tutto il mondo e più volte nell’arco della loro storia, sono stati abituati fin da subito ad abitare sia lo spazio, i luoghi e i nuovi paesi d’approdo, e sia il tempo, il quando, in una parabola che spesso confonde le due coordinate. Se si aggiunge inoltre che per gli ebrei la tradizione e la memoria assumono un significato importantissimo (in ebraico per dire “storia” si usa la parola toledot, che significa propriamente “generazioni”, quindi la storia diventa qualcosa da trasmettersi di generazione in generazione), risulta indispensabile cercare di capire come questi abbiano interpretato ed interpretino ancor oggi il proprio passato nei suoi tratti fondamentali.
A tal proposito, una parola ebraica, qedem, viene in nostro aiuto per proporci uno sguardo originale sul tempo che è passato, ed è capace di unire al proprio interno sia il significato temporale sia il significato spaziale di cui parlato poc’anzi. Qedem significa infatti molte cose insieme: “prima” o “anticamente” e “davanti” o “di fronte”. Già notiamo, con queste due coppie di parole, che sono presenti entrambe le coordinate di nostro interesse: il dove e il quando. Per comprendere al meglio il significato della parola, però, dobbiamo momentaneamente abbandonare la nostra concezione di futuro e di passato dove al primo è associato uno sguardo proteso in avanti e al secondo tutto ciò che abbiamo lasciato alle spalle.
“In ebraico è il passato che vediamo e si presenta davanti a noi, mentre il futuro ci è del tutto ignoto, e sta in un certo senso dietro. E’ un modo originale per stare dentro il tempo, ma a ben guardare ha una sua logica: certo non conosciamo tutto del passato, ma indubbiamente ne sappiamo più di quanto non possiamo sapere su quel che ha ancora da venire. E così, anche ora stiamo provando a guardare un poco indietro, cioè davanti…”
Questo cambio di prospettiva, sebbene possa sembrarci particolare o comunque inconsueto, non ha alcuna pretesa di apparirci come l’unico possibile, e io credo, in un certo senso, che possa aiutarci a vivere le cose in modo diverso, anche se continuiamo, nel resto della nostra vita, a considerare il tempo come abbiamo sempre fatto, e cioè ritenendo il passato come qualcosa che si trova alle spalle e il futuro come qualcosa a cui rivolgere lo sguardo.
In effetti entrambe le prospettive possono essere valide e hanno una logica al proprio interno che è molto consapevole, ma se consideriamo il passato e il futuro in termini soltanto di conoscenza una cosa ci appare immediatamente chiara: il passato lo conosciamo perchè lo abbiamo vissuto, e quindi possiamo guardarlo negli occhi, e il futuro invece no, perché dobbiamo ancora incontrarlo, viverlo e interpretarlo.
Ma a ben pensarci, ad esempio quando faccio i conti con il mio passato, capisco già più volte di aver adottato questa prospettiva ebraica, perchè il passato, quando lo analizzo, è come se già lo stessi guardando in faccia ed è come se già lo avessi di fronte, davanti a me, ed è in virtù di questo che mi è possibile instaurare un dialogo con esso o compiere altre operazioni tra cui cercare tra i vecchi ricordi o pescare nuove risposte per la mia essenza del presente. Posso farlo perchè il passato mi è davanti. E così il futuro, come qualsiasi cosa che si trova alle mie spalle, e cioè dietro, non posso in alcun modo vederlo e dunque conoscerlo. O meglio, non ancora.
E quindi perchè non applicare lo stesso procedimento anche ad una situazione più generale come quella che ci vede camminare nel sentiero dell’esistenza? In fondo questo sguardo ebraico su cui misurare il tempo è un’operazione che è già insita in noi nel momento in cui analizziamo il passato. Adottarla in altri e diversi momenti della nostra vita potrebbe solo aiutarci a vivere con più solidità e senso di completezza, per non dimenticare chi siamo e da dove veniamo.