“Il profondo distacco dagli onori e dalle ricchezze, l’umiltà serena e gioviale, l’equilibrata conoscenza della natura umana e della vanità del successo, la sicurezza di giudizio radicata nella fede, gli dettero quella fiduciosa fortezza interiore che lo sostenne nelle avversità e di fronte alla morte. La sua santità rifulse nel martirio, ma fu preparata da un’intera vita di lavoro nella dedizione a Dio e al prossimo.”
Con queste parole, pubblicate nella lettera apostolica del 31 ottobre del 2000, l’allora Papa Giovanni Paolo II proclamava – in forma di motu proprio – lo Statista inglese come il Patrono dei governanti e dei politici. Consapevole del peso spirituale che si nasconde dietro questa proclamazione e, prendendo spunto dalla testimonianza di uomo che ha preferito sacrificare la propria vita prima di piegare la coscienza al potere, il Papa decise così di lanciare un monito di risveglio nei confronti di una classe politica messa in ginocchio dalle dinamiche del mondo contemporaneo.
Sulla vita di Thomas More si conoscono prevalentemente due passaggi: il primo, che ha scritto l’opera intitolata “Utopia” (Lovaina, 1516), dalla quale deriva il significato volgare del termine in un gioco di parole ottenuto dalla latinizzazione di due parole greche: Εὐτοπεία ed Οὐτοπεία; la seconda, è il martirio al quale il cancelliere è stato sottoposto dopo essersi rifiutato di accettare l’Atto di Supremazia attraverso il quale il re Enrico VIII intendeva proclamarsi come “l’unico capo supremo sulla terra della Chiesa in Inghilterra” . More passava così, da un giorno all’altro, dai privilegi della cancelleria alla prigionia nella Torre di Londra e, in seguito, alla condanna a morte il 6 luglio 1535.
Per quanto riguarda la più conosciuta delle sue opere letterarie, il suo nome, Utopia, proviene sia da Εὐτοπεία che significherebbe “ottimo luogo”, sia da Οὐτοπεία il cui significato sarebbe “non-luogo”. Questa ambiguità ha accompagnato lo stile letterario dell’autore in un’opera che esprime il disegno di una società fondata sulla cultura e, allo stesso tempo, sottoposta al governo della ragione. Quest’opera è nata come contestazione al dispotismo regnante di una società era degenerata nella formula dei privilegi ingiustificati di pochi – spesso di un singolo – e l’oppressione spietata per molti.
Non si può giudicare l’opera senza comprendere il contesto della Londra del ‘500, colpita dalle appropriazioni arbitrarie delle terre da parte dell’aristocrazia sottomettendo i contadini alla miseria. Utopia invece contesta il fatto che uomini materialmente ricchi ma privi di cultura e valori opprimano, in alcun modo, gli uomini più colti. Allo stesso tempo, in Utopia viene rispettata la libertà di culto dato che il legislatore ha ritenuto opportuna la varietà e la molteplicità di culti,
Per ciò che riguarda la religione, il messaggio implicito era un richiamo all’umiltà nei confronti delle fazioni che all’interno di un cristianesimo colpito dalle fratture rivendicavano la veridicità della propria interpretazione. Non si tratta della promozione del paganesimo, ma della schietta affermazione su come molti pagani praticassero meglio le virtù cardinali rispetto a tanti cristiani.
Utopia resta e resterà questo mondo ideale immaginato da More. Lo stesso titolo è un monito non preso in considerazione da chi, animato dai propri dogmi, ha mal interpretato il romanzo estraendolo dal suo contesto originale. Non si conosce con precisione come sia nata l’Utopia di More, ma lo si può dedurre dall’esperienza del cancelliere nelle missioni diplomatiche che, nel nome della corona ha dovuto intraprendere. Si parla spesso di un viaggio diplomatico nel quale ha visitato le città di Bruxelles e Anversa. In quei viaggi ha potuto ammirare l’ottima amministrazione dei municipi fiamminghi i quali vantavano di livelli di convivenza, igiene e armonia che li ponevano all’opposto di una Londra immersa nel caos. Alcuni deducono che, alla fine dei conti, Utopia abbia rappresentato una specie di omaggio alla memoria di queste piccole città rinascentiste destinate a scomparire sotto lo strapotere degli Stati.
Per quanto riguarda il secondo elemento per cui Thomas More viene ricordato, ovvero, quello del martirio, non possiamo affrontarlo senza accennare brevemente la sua vita politica, il cui inizio fu così descritto dal suo buon amico Erasmo Da Rotterdam “nessuno lavorerà così tanto per entrare in esso (il Consiglio Reale) quanto lui per non farne parte”. La testimonianza di Erasmo precisa come More provasse una certa disaffezione per le cariche pubbliche che invece erano (sono e saranno) oggetto di disputa, conflitti e controversie per gli uomini. Lo stesso Erasmo lo paragona a un attore di teatro che, sia come giudice, sia come cancelliere, indossava le toghe per fare il suo dovere e, una volta concluso, si spogliava da esse e tornava in sé stesso, dimostrandosi indifferente di fronte al successo, il potere e il prestigio che tali incarichi potessero procurargli.
More, nato a Londra nel 1478, segue le orme del suo padre Sir John More e dedica la propria gioventù allo studio del Diritto. L’umanesimo lo condurrà all’amicizia con Erasmo Da Rotterdam, il quale tardi scrisse Elogio della Follia, utilizzando il termine latino Moria in richiamo al cognome di Sir Thomas. Entra alla Corte di Enrico VIII nel 1520 e un anno dopo viene nominato cavaliere. Occupò diverse cariche pubbliche raggiungendo l’apice della sua carriera con il cancellierato tra il 1529. Fu un fervente difensore della fede cattolica nei confronti della riforma protestante e non mancano le polemiche attorno alla sua figura per il suo attivismo nei confronti degli eretici. Per ciò che riguarda quest’ultimo aspetto, Papa Giovanni Paolo II ci riporta nel contesto storico affermando che “per quanto riguarda le azioni contro gli eretici, subì i limiti del tempo”
I rapporti con Enrico VIII si sono incrinati per la mancata approvazione del divorzio con Caterina d’Aragona da parte del Papa Clemente VII. La mancata approvazione del divorzio avrebbe portato alla forte reazione del re, il quale ha richiesto a tutto il clero un giuramento di Supremazia riconoscendolo come capo della chiesa d’inghilterra. In seguito, il 16 maggio 1532, More si dimise dall’incarico di cancelliere e nel 1534, dopo rifiutarsi di prestare giuramento di fronte al Supreme Act, fu imprigionato nella Torre di Londra. Nella prigionia scrisse un’altra opera intitolata Expositio passionis domini nella quale ci sono diverse riflessioni sulla sofferenza e le tribolazioni. Tale opera rimase inconclusa dato che le guardie gli confiscarono il materiale. Allo stesso modo, scrisse diverse lettere alla figlia Margaret esprimendo la propria rassegnazione nell’attesa della vita eterna.
Dall’inizio della cancelleria, More aveva intuito le ambizioni dietro la persona di Enrico VIII. In un’occasione, dopo che il re rimase a passeggiare nel giardino di casa More tenendolo per braccio, il suo genero Roper gli aveva manifestato la propria ammirazione per come avesse ottenuto la simpatia del re, commento al quale More rispose “se la mia testa gli servisse per ottenere un castello in Francia, essa cadrebbe immediatamente dal mio collo”. Così, il 6 giugno 1535, More venne decapitato presso la Tower Hill, a pochi metri dalla torre di Londra. Il capriccio del re poneva fine alla vita di un appassionato che non piegò mai la propria coscienza al potere di Enrico VIII. Poco prima della sua morte, come se si trattasse di una scena in più di una commedia che giungeva al suo epilogo, chiese al suo genero Roper di consegnare una moneta al boia, al quale ha chiesto personalmente di fare bene il proprio lavoro dicendogli “è in gioco il tuo onore”. Gli ultimi secondi di vita gli bastarono per spostare la barba evitando che quest’ultima venisse colpita dall’accia dato che non aveva commesso tradimento alcuno.
Il ricordo del martirio di Sir Thomas More può sintetizzarsi dalle parole di Marie Louise Bernieri, autrice di una delle sue biografie: “Cadde l’accia e con essa, la testa di un uomo che ha sempre voluto voluto pensare con rettitudine, in un mondo pieno di confusione”. Grazie al coraggio di andare controcorrente, More si rivelò un uomo per tutte le generazioni.