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Il Partito Democratico verso l’estinzione?

| 7 Dicembre 2018 | POLITICA

L’ex ministro degli interni Marco Minniti ha ufficializzato il ritiro della sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico in un’intervista rilasciata ieri al quotidiano La Repubblica, dopo essere sceso in campo meno di venti giorni fa. La prima domanda che sorge spontanea è inevitabilmente la seguente: qual è il motivo di questo improvviso ed incoerente gesto? Ufficialmente, l’ex ministro degli interni ha invocato l’unità del partito come giustificazione per la sua decisione. La presenza di troppi candidati, secondo Minniti, non fa altro che accentuare la già palese frammentazione del partito. Inoltre, se ci sono tanti candidati, molto probabilmente il vincitore non otterrebbe il 51 % dei voti. Uno scenario di questo tipo, dove in pratica nessun candidato prevale davvero sugli altri, confermerebbe l’attuale situazione interna, per cui il Partito Democratico è considerato una “confederazione di correnti”.

Ma questa è la versione ufficiale di Minniti. C’è qualcosa di non detto dall’ex ministro degli interni che spiegherebbe in modo più completo la vicenda. Che ci fossero tanti candidati alla segreteria non è certo notizia di ieri, quindi dev’esserci qualche altro motivo. Sembra infatti che la decisione di Minniti abbia a che fare con le indiscrezioni secondo cui i parlamentari renziani non si sarebbero detti disponibili ad appoggiarlo per la segreteria. Minniti, spesso descritto come il candidato dell’area renziana del partito (cosa che lui ha sempre smentito) avrebbe chiesto ai parlamentari vicini all’ex presidente del consiglio, come garanzia per la credibilità della sua corsa al Nazareno, di promettere che non sarebbero usciti dal Pd. I parlamentari renziani non hanno potuto fare questa promessa e allora Minniti, capendo di non avere l’appoggio di Renzi, ha abbandonato la sua candidatura.

All’origine della mancata promessa dei parlamentari democratici vi sarebbe la presunta intenzione da parte di Matteo Renzi di dare vita a un proprio partito. Si tratterebbe di un soggetto politico centrista, moderato, di orientamento liberale e ispirazione macroniana, mirato a raccogliere i voti dei liberali del Partito Democratico e dei disillusi di Forza Italia sul fronte italiano, e a fare da argine all’euroscetticismo dei partiti cosiddetti populisti e sovranisti sul fronte europeo. Effettivamente alcuni indizi che portano su questa strada ci sarebbero. Per esempio, Renzi non ha partecipato all’ultima assemblea nazionale del Pd. Fatto strano a dir poco per chi fino allo scorso marzo era segretario del partito. I sospetti sulla volontà dell’ex presidente del consiglio di dare vita a un nuovo soggetto politico sarebbero stati confermati dal suo viaggio a Bruxelles di ieri l’altro dove ha incontrato Frans Timmermans, vice presidente della Commissione Europea e candidato del Partito Socialista Europeo alle elezioni del prossimo maggio, la liberale Margrethe Vestager e avrebbe incrociato pure il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e l’ormai famigerato commissario per gli affari economici Pierre Moscovici. Pare che Renzi abbia fatto questo viaggio con l’intenzione di sondare il terreno circa la possibilità di dare vita a un fronte anti-sovranista in vista delle prossime elezioni europee, di cui lui punterebbe ad essere figura centrale.

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Se Renzi vuole dare vita a un suo partito anti-sovranista prima delle europee, allora il tempo utile per la scissione dal Pd è pochissimo. La scissione, se ci sarà, dovrà avvenire a breve. Renzi ha rigettato al mittente le voci che lo identificano come il responsabile del ritiro di Minniti. “Non chiedetemi di stare dietro alle divisioni del Pd perché non le capisco, non le condivido, non mi appartengono” ha scritto l’ex premier in un post su Facebook, il quale rifiuta di fare “il piccolo burattinaio al congresso”. Una frase in particolare attira l’attenzione. “Da mesi non mi occupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese. Che è più importante anche del Pd”. Altro segnale del fatto che l’appartenenza al partito è diventata un aspetto del tutto secondario. Renzi dice di pensare prima al Paese, cosa che dovrebbe essere scontata per qualsiasi politico, ma in questo caso tale affermazione ha un significato implicito e strumentale. Per fare l’interesse del Paese l’ex premier vuole andare oltre il Pd, creando un proprio partito.

Il ritiro di Minniti e l’accumularsi degli indizi sull’abbandono di Renzi hanno creato un putiferio che destabilizza ulteriormente un partito che più frammentato di così non potrebbe essere. Ovviamente l’addio di Renzi indebolirebbe ancora di più il Pd, uscito con le ossa rotte dalle legislative del 4 marzo, che subirebbe un’altra perdita di consensi e di credibilità venendo condannato definitivamente ad essere percepito come un partito fatto di tante piccole correnti in lotta tra loro, dove lo scontro tra i capi corrente prevale sulle idee e le richieste provenienti dalla società. In poche parole, un partito autoreferenziale senza capo né coda, incapace di assolvere pienamente al suo compito di fare opposizione.

Non sono in pochi a credere che l’uscita di scena di Renzi segnerebbe la fine del Pd. D’altro canto l’addio di quel personaggio che ha segnato, nel bene e nel male, le vicende dell’ultimo lustro del Partito Democratico non potrebbe avvenire in modo indolore. Ma è davvero necessario che Renzi se ne vada per decretare la fine del Pd? In effetti, è dal 4 marzo che il partito si trova in un preoccupante stato comatoso. La peggiore sconfitta del centro-sinistra italiano nella storia repubblicana non ha nemmeno lontanamente messo fine alle divisioni interne. L’appello all’unità è stato invocato da molti ma di fatto non è accaduto nulla. Le correnti ci sono ancora e il partito continua ad essere lacerato dalle faide interne che non gli permettono di fare opposizione in modo serio e credibile. Difficile dire cosa rappresenti il Pd. Difficile non definirlo un’accozzaglia di gruppi in lotta tra loro incapaci di trovare un terreno comune da cui far partire una proposta politica alternativa e condivisa.

A prescindere da quello che farà Renzi, il Partito Democratico vive da nove mesi un’agonia che pare incurabile. In questo lungo lasso di tempo i democratici si sono rivelati incapaci di ricostruire il partito. A dimostrazione di tale incapacità vi è il fatto che le primarie per scegliere il nuovo segretario si terranno il prossimo 3 marzo, a un anno dalla Caporetto delle legislative, nel bel mezzo della campagna elettorale per le europee. Un partito che dimezza il suo consenso in quattro anni subendo una sconfitta storica dovrebbe adoperarsi alla velocità della luce per riorganizzarsi e tornare ad essere competitivo. Invece, il Pd ci mette un anno solo per organizzare le primarie con cui si dovrà insediare la nuova leadership, con buona pace di quanti speravano in una presa di coscienza da parte del gruppo dirigente.

Insomma, con o senza Renzi, lo stato di salute del Pd è pessimo. Il lunghissimo tempo impiegato per organizzare le primarie è indice dell’inefficienza del partito, troppo frammentato per trovare una quadra da cui ripartire. Se la tendenza continuerà ad essere questa i risultati potranno essere solo due: irrilevanza politica o estinzione.

TAG: 4 marzo, capicorrente, congresso, correnti, elezioni europee, Marco Minniti, Matteo Renzi, minoranze, Partito Democratico, PD, politica, Primarie, renziani, segreteria, Unione Europea
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