
Che l’Italia fosse un paese vecchio lo si sapeva già, ce l’ha detto anche Prandelli (ex ct della nazionale di calcio), dopo la sonora sconfitta contro la Spagna negli europei del 2012 ma poi proseguimmo sulla stessa strada senza alcun cambiamento di rotta, eppure pretendevamo dei risultati che non sono più arrivati. L’arroganza ci trascinò fino all’ultima ecatombe sportiva: la mancata qualificazione ai mondiali.
La risposta è stata, come sempre, quella di trovare un capro espiatorio (o forse due!). Ventura e Tavecchio sono stati dati in pasto ai giornalisti, ai social e all’opinione pubblica in generale, ma la verità era un’altra. La catena di insuccessi aveva origini assai più remote. La mancata innovazione in una federazione lasciata allo sbando, spartita fra i più particolari interessi di una classe dirigente senza la volontà politica di realizzare un progetto a lungo periodo come hanno fatto i nostri avversari e il negato ricambio generazionale da parte di chi non brucia le tappe ma insiste nel rivendicare un’eterna gioventù facendola pagare cara all’intero organico, sono le cause principali della crisi che attraversa il calcio nostrano e non solo.
Abbiamo sempre trovato a chi dare la colpa. Vediamo dei fantasmi a destra e manca: a volte contro gli arbitri se ci danneggiano, altre volte contro i nostri allenatori, giocatori, ecc.. Pensiamo che il mondo ce l’abbia con l’Italia e che siamo sempre sotto il complotto di due o tre potenti che ci bloccano dall’alto. Nel frattempo, il lungo periodo – che sembrava così lontano – diventa presente, non ci facciamo trovare pronti ma ci affidiamo al miracolo, al caso o a qualche uomo forte/santone/fuoriclasse che copra le nostre carenze dopodiché, se non accade, gridiamo “Emergenza!”.
Il problema diventa più grave quando applichiamo il metodo in questione ad altre realtà, nelle quali non è un risultato sportivo ad essere in gioco ma la vita delle persone. L’abbiamo vissuto a Genova, dove l’immobilismo, l’omissione e gli interessi hanno lasciato delle conseguenze disastrose, dove i politici cercano ancora una volta di essere al centro dell’attenzione anche sulla pelle delle vittime per le quali i Benetton non hanno avuto qualche parola di cordoglio. A Genova, dove Conte si è scordato di Padre Pio per travestirsi di autoritario parlando di revoche ad hoc, dove un Di Maio voglioso di protagonismo sembra una triste imitazione di CR7 nel suo esordio a Villar Perosa. All’appuntamento non potevano mancare i complottisti sparando le loro teorie. Tutti pronti a fare sciacallaggio e a dimostrare la mediocrità di un’intera classe dirigente, ma nessuno di loro disponibile a dare soluzioni concrete che possano rialzarci dal dramma.
Aldilà del giustizialismo che ci rende ciechi quando non accade il miracolo e del conformismo sul quale ci riposiamo quando ci si salva per un pelo, non possiamo più vivere sotto una cultura dell’emergenza in cui le perdite umane e materiali ci appaiono come qualcosa di inevitabile laddove è mancata la normalità della prevenzione. Non si può continuare a sottoporre gli italiani all’incertezza di strutture che non tengono più, ne alla paura di catastrofi che andrebbero evitate.
Mi chiedo come mai si può parlare di crescita se prima non si garantiscono i servizi e le strutture necessari allo svolgimento delle attività quotidiane? Come si fa a sperare nei successi straordinari senza garantire il funzionamento delle cose normali? A questo ritmo, oltre a spaventare i mercati, spaventiamo anche le persone che vivono sulla propria pelle il giorno dopo giorno e continueremo a farlo, almeno fino a quando non sostituiremo quest’assurda cultura dell’emergenza con il senso del dovere, con la responsabilità e la prevenzione che servono a mantenere in piedi una casa, un condominio e una nazione intera.