
Bisogna attendere il deposito delle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia che non arriveranno prima di luglio, per comprendere meglio le condanne inflitte agli imputati lette nella sentenza dal Presidente della Corte di Assise di Palermo Alfredo Montalto, ma alcuni dubbi al riguardo affiorano.
Il primo dubbio riguarda la mancata individuazione della parte politica per conto della quale i vertici dei Ros trattavano con Cosa Nostra. Subranni, De Donno e Mori, hanno portato avanti una loro trattativa senza informare nessuno e soprattutto senza prendere ordini da nessuno? I referenti politici non sono stati individuati e anche l’ex Ministro Mancino è stato assolto dall’accusa di falsa testimonianza. Non bisogna attendere un pentito di Stato come auspicato dal Sostituto Procuratore Antimafia Nino Di Matteo ma è la Procura incaricata a dover peraeguire questo pezzo di verità altrimenti la sentenza risulta monca nella parte fondamentale del procedimento: lo Stato.
Tra il 1992 e il 1993, l’Italia era governata da Amato prima e Ciampi poi ma nessuno dei ministro di entrambi i governi è stato condannato, persino Calogero Mannino è stato assolto. C’è poi quel particolare che all’epoca non è stato preso in considerazione: il 27 luglio 1993 ci furono gli attentati a Roma, a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni in Laterano. I mafiosi avrebbero potuto scegliere altri siti, l’Ara Pacis, il Colosseo, S. Maria Maggiore, invece proprio San Giovanni e San Giorgio. Chi erano Giovanni e Giorgio? Giovanni Spadolini Presidente del Senato, seconda carica dello Stato, e Giorgio Napolitano Presidente della Camera. Nella notte del 27 luglio 1993 ci fu l’isolamento telefonico di Palazzo Chigi con tutta la preoccupazione di Ciampi di un golpe in atto. Messaggi in chiaro della mafia stragista che vuole comunicare con pezzi dello Stato. Il secondo dubbio riguarda il capo d’imputazione, e qui si entra nell’ambito giuridico del codice penale e ciò, sicuramente, porterà a nuove battaglie giudiziarie negli altri gradi di giudizio.
Il reato ipotizzato dalla procura di Palermo è “Minaccia a Corpo Politico articolo 338 del codice penale”: Chiunque usa violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica autorità costituita in collegio, per impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto per influire sulle deliberazioni collegiali di imprese che esercitano servizi pubblici o di pubblica necessità, qualora tali deliberazioni abbiano per oggetto l’organizzazione o l’esecuzione dei servizi.
Sì indica quindi il Governo italiano come un organo politico mentre è un organo costituzionale e quindi il reato dovrebbe ricadere nell’articolo 289 del codice penale: attentato contro gli organi costituzionali e contro le assemblee regionali. E’ punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; 2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni.
In questo caso si parla di atti violenti non di minaccia; ecco perché la Procura di Palermo ha ripiegato sull’articolo 338. Se Subranni, De Donno e Mori sono stati condannati per la loro attività di colegamento tra Stato e Mafia per gli anni 1992-1993, Marcello Dell’Utri è stato condannato per la medesima attività che si è protratta anche per il 1994 durante il primo governo Berlusconi.
C’è da tenere in considerazione le parole di Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia il quale ha affermato che la trattativa è proseguita sino al 2004. Anche in questo caso nessun politico coinvolto. Per la Procura la trattativa si ferma nel 1994. C’è poi, un particolare non irrilevante: il rapporto del Sostituto Procuratore Nino Di Matteo con il Movimento 5 Stelle, l’eterno dilemma sull’imparzialità politica della giustizia entra a gamba tesa in questa sentenza. È noto la reciproca simpatia tra Di Matteo e i 5 Stelle difatti, il sostituto procuratore era stato indicato come possibile Ministro della Giustizia in un governo grillino per poi ripiegare su Bonafede.
Il 7 aprile, durante la recente reunion dei 5 Stelle ad Ivrea presso le officine H, nell’evento organizzato da Davide Casaleggio in memoria del padre GianRoberto, dove ha dichiarato che: “Qui non si parla di politica”, poi è intervenuto Nino Di Matteo ed il suo discorso è stato prettamente politico parlando della sua idea di riforma della giustizia per 28 minuti seguito in platea dai vertici grillini. Parlando di verità parziali sulle stragi.
L’eterno dilemma sull’imparzialità politica dei giudici è preponderante in questa sentenza: può un Sostituto Procuratore Antimafia partecipare pochi giorni prima della sentenza di un processo, ad una convention organizzata da un movimento politico? Moralmente è una iniziativa che un Sostituto Procuratore dovrebbe evitare. I magistrati che si assegnano il ruolo di moralizzatori politici fanno il loro lavoro come si deve? Il compito di un magistrato è quello di accertare la verità in ogni sua forma non quella di fare campagna elettorale o scrivere la riforma della giustizia per questo e quel partito politico.
Certo, la politicizzazione della magistratura nasce dall’interno ma in questo caso, come in tanti altri, quel confine labile tra magistratura e politica è stato superato producendo una sentenza con una verità parziale ad uso politico del Movimento 5 Stelle e, guarda caso, il dott. Di Matteo parrebbe esserne il ministro della giustizia occulto dietro il candidato al ministero Bonafede. Nei prossimi gradi di giudizio si attende una chiarezza giudiziaria al riguardo, viceversa questa sentenza non rappresenta la totale verità.