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L’Arizona va controcorrente: il Grand Canyon non si tocca

| 28 Marzo 2018 | IL FORMAT

Il risultato dell’ultimo Consiglio Comunale tenutosi nella città di Flagstaff, capitale della contea di Coconino, Arizona, ha approvato una risoluzione che proibisce l’attività mineraria nell’area del Grand Canyon.

Scampato pericolo in Arizona: la folla accorsa al consiglio comunale dello scorso venerdì ha salutato con un’ovazione la decisione del comune di mantenere il divieto che proibisce a qualsiasi compagnia di estrarre minerali nell’area intorno al parco nazionale del Grand Canyon. Un’altra battaglia, combattuta insieme dalla comunità dell’Arizona e dalla nazione Navajo (ma con il sostegno di molte altre), è stata vinta. Attenzione però: battaglia, non guerra. Sono infatti diversi anni che le organizzazioni ambientaliste lottano per impedire che il progetto venga attuato, cercando in ogni modo di tutelare il parco nazionale. La mossa più concreta in questa direzione era stata fatta quando, durante l’amministrazione Obama, Ken Salazar aveva approvato una legge che prevedeva un divieto di condurre qualsiasi operazione di scavo nell’area nei successivi 20 anni. Questa legge è stata più volte attaccata dai Repubblicani e dalle lobby minerarie, che avrebbero grandi interessi a sfruttare quel tipo di risorse. Fino ad ora questi attacchi sono sempre stati respinti con successo. E’ tuttavia più che comprensibile però, soprattutto dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, che vecchi timori si rinnovino. Non è certo segreta la “simpatia” che il nuovo Presidente nutre nei confronti delle multinazionali, come non lo è nemmeno il suo totale menefreghismo verso i danni che l’attività di queste ultime produce all’ambiente. Inoltre, è sotto gli occhi di tutti la facilità con la quale Trump sia stato in grado di aggirare o eliminare provvedimenti presi dal suo predecessore, mirati alla salvaguardia dell’ecosistema e a porre dei limiti nella realizzazione di progetti a forte impatto ambientale nel paese (gli oleodotti in Dakota e Alabama sono un esempio).
A questo proposito, l’obiettivo delle organizzazioni pro-ambiente era quello di escludere una volta per tutte un possibile intervento governativo sull’area del Grand Canyon. Qualche anno fa, avevano perciò proposto una legge per imporre un divieto senza limiti di tempo per l’attività mineraria nell’area interessata. Questa proposta è ancora in fase di revisione e non approvata, e ciò non ci deve sorprendere. Sono in molti a storcere in naso di fronte alla possibilità di non poter sfruttare le risorse di minerali (soprattutto uranio): su tutte abbiamo la EFR (Energy Fuels Resources Corporation) e la NMA (Narional Mining Association), che hanno più volte esortato Trump a rimuovere il divieto ventennale.

In questo clima e secondo il trend degli ultimi mesi, sorprende ancora di più – questa volta in postivo – la decisione del Consiglio Comunale, che è riuscito a difendere il parco nazionale e le zone limitrofe. Ad esultare sono anche le comunità di Nativi Americani dell’area: Navajo, Hopi e Havasupai. Specialmente i primi avevano già provato sulla loro pelle il significato del cosiddetto “colonialismo nucleare”: i loro terreni sono stati per generazioni sottoposti a scavi per estrarre uranio, e convivono tuttora con più di 450 miniere abbandonate nelle loro terre. Come diretta conseguenza, le cause maggiori di morte nella zona sono dovute a malattie correlate al cancro ai polmoni, provocato dalle radiazioni nocive alle quali sono sottoposte le persone che abitano e lavorano nell’area.
Questa osservazione è stata riportata direttamente anche a Mark Chalmers, presidente della “Energy Fuels”, il quale ha risposto che “l’uranio è già presente nella zona, è infatti un risultato naturale dell’erosione delle rocce da parte del fiume Colorado”. Nonostante questo ridicolo tentativo di difesa, i dati dell’Agenzia di Protezione Ambientale parlano chiaro: l’85% delle miniere abbandonate produce delle radiazioni il doppio più forti di quelle prodotte naturalmente dall’uranio sotterraneo. In più, secondo i rilevamenti, nella metà delle miniere il livello di queste radiazioni aumenta dalle 10 alle 25 volte rispetto a quelle nel sottosuolo. Alla presentazione di questi dati, Chalmers ha obiettato che “l’industria ha imparato molto negli ultimi 50 anni”; quando però il sindaco Coral Evans gli ha chiesto se fosse in grado di garantire che nessuno sarebbe morto di malattie derivanti dall’estrazione dell’uranio, egli non ha saputo fornire risposta.

E’ fondamentale non dimenticare che quelli interessati sono terreni considerati sacri dalla cultura dei Nativi Americani. Stiamo parlando di popolazioni sempre ignorate e calpestate dagli interessi economici di un paese che, pur essendo incarnazione del “melting pot”, non ha mai provato davvero a rispettare la tradizione di queste comunità.
Anche da questo punto di vista, Flagstaff può rappresentare una piccola inversione di tendenza. Nativi e cittadini (l’80% si è dimostrato contrario al progetto delle lobby minerarie) hanno per una volta combattuto fianco a fianco, riportando una piccola ma molto significativa vittoria.

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