La chiarezza del linguaggio, la coerenza fra significante e significato, dovrebbero essere alla base di qualsiasi discorso politico. Ne va della democrazia. Per questo tra i responsabili della crisi pluridecennale del nostro Paese gli operatori dell’informazione (giornalisti, opinionisti da talk show, ecc.) hanno un posto di primo piano.
L’ultima operazione di mistificazione, particolarmente odiosa, sta avvenendo in relazione alla situazione del Monte dei Paschi.
Sul suo blog Mario Seminerio, bocconiano gestore di portafogli per importanti fondi comuni, giornalista pubblicista, editorialista di importanti quotidiani italiani, passa in rassegna le cause del trend ribassista del prezzo dell’azione Mps, reali (timori sulla realizzabilità del piano industriale e sulle eventuali richieste di tagli lineari di costi da parte della Bce, in caso di mancato rispetto della “tabella di marcia” concordata; sottovalutazione della massa reale dei crediti deteriorati; azioni legali contro Montepaschi) o immaginarie (paure per un “paese privo di governo e che rischia di restare tale ancora a lungo oppure di vedere l’ascesa di forze sfasciste dei conti pubblici”), per sferrare poi bordate a palle incatenate contro coloro (i “grillini”, nell’immaginario dell’autore) che chiedevano a gran voce la “nazionalizzazione” della banca.
Dice Seminerio: “quello che resta oggettivo, è che la banca è oggi del Tesoro, cioè dei contribuenti italiani, al 68%, e questo è l’esito che ci è stato consegnato dalla cocciutaggine del precedente esecutivo a voler evitare la risoluzione della banca e degli strumenti finanziari passibili di essere azzerati per conseguire il riequilibrio… Quale è il punto, della vicenda Mps, ormai sempre più «alitalizzata»? Che i soggetti che oggi strepitano contro Padoan ed i governi Renzi-Gentiloni per la loro decisione di perseguire ad ogni costo la nazionalizzazione «temporanea» del Monte, sono gli stessi che ieri l’altro sbraitavano chiedendo a pieni polmoni la nazionalizzazione della banca, cioè lo stesso esito che abbiamo oggi sotto gli occhi, e che ieri si pavoneggiavano ritenendo che la storia avesse loro dato ragione, con l’immancabile giaculatoria del «chiedeteci scusa»”.
Di illustrate l’altra faccia della stessa assurda medaglia spacciata da Seminerio si incarica Sergio Luciano, già redattore capo dell’economia a La Stampa, quindi della finanza a Il Sole 24 Ore, infine delle pagine economiche a La Repubblica. Non proprio l’ultimo arrivato. Secondo Luciano “giustamente la banca ha smentito le «illazioni» circolate sui media, circa l’eventualità di nuovi aumenti di capitale – e grazie: è ormai l’unica banca di proprietà dello Stato, quindi la sua solidità è illimitata, ovvero agganciata indissolubilmente alla solidità della Repubblica italiana! – e ha anche ribadito che il piano di ristrutturazione al 2021 stabilito e condiviso dalle autorità europee «procede secondo le tempistiche», anche nella «riduzione dei crediti deteriorati e iniziative di contenimento dei costi»”. Il calo in borsa sarebbe dunque determinato dalla difficoltà del Monte di “rimettersi a fatturare”, un po’ per colpa della “attuale fase storica del mercato bancario europeo in specie (colpa dei tedeschi) e mondiale in genere”, un po’ per responsabilità di Morelli, “persona perbene e tecnico rispettato da tutti” ma non certo “uomo di sviluppo”; ben diversa sarebbe stata la situazione, se Renzi & co. avessero preso in considerazione il piano di Corrado Passera!
Ora, al di là di certe espressioni un po’ cialtrone (l’idea che una banca “fatturi”, o che “i tedeschi” in quanto popolo impongano l’agenda alla Bce), negli articoli sopra riportati c’è un vizio di fondo ineliminabile. E cioè che il Monte non è stato nazionalizzato, per cui determinate affermazioni (oggettivamente false) qualificano i loro autori non solo come bugiardi, ma anche come sabotatori del corretto processo di formazione della volontà democratica del Popolo italiano (cui, secondo la Costituzione, appartiene la sovranità).
La nazionalizzazione è infatti un intervento con cui “lo Stato, mediante un provvedimento legislativo, acquisisce la proprietà, piena o parziale…, di determinate industrie private, o l’esercizio di alcune attività di preminente interesse generale”, allo scopo di controllare settori produttivi nell’ottica del “perseguimento di finalità sociali (quali il sostegno all’occupazione o lo sviluppo di un’area territoriale economicamente arretrata) e non al perseguimento del profitto…” (Treccani dixit). Se, pertanto, è plausibile una qualificazione privatistica (società per azioni), anziché pubblica, del soggetto nazionalizzato, l’idea che questo soggetto possa essere quotato su un mercato finanziario, debba rispettare determinati requisiti di efficienza in termini di costi e ricavi, possa o addirittura debba staccare dividendi, è in radice un controsenso. Ma, d’altronde, cosa attendersi da ordinamenti che tollerano, in borsa, società di calcio, o la holding che controlla i mercati di Londra e di Milano?
Queste considerazioni fanno dunque strame delle affermazioni secondo cui la situazione del Monte di oggi corrisponderebbe a quella richiesta “a gran voce ieri” da settori dell’opposizione, o che la solidità del Monte corrisponderebbe a quella della Repubblica italiana, o ancora che tutto si sarebbe risolto applicando a Mps il bail-in duro e puro (a riprova che, dopo oltre 10 anni, il fallimento di Lehman Brothers non ha insegnato nulla). Ma aiutano a mettere anche in evidenza il punto essenziale della questione, che le lunghe giaculatorie dei nostri giornalisti un tanto all’ora evitano con cura di nominare.
Nazionalizzare un’impresa significa porre sotto controllo pubblico, in tutto o in parte, un settore produttivo, mettendo a carico del bilancio dello Stato i relativi costi e permettendo altresì ai cittadini di goderne i relativi servizi. L’eventuale decisione di coprire i suddetti costi mediante fiscalità generale appartiene alla discrezionalità politica, soprattutto in un’ottica di redistribuzione delle risorse fra classi.
Quello che invece si sta facendo col Monte, e prima si è fatto con le banche venete, è un’operazione assai diversa: socializzazione delle perdite (a geometria variabile: in entrambi i casi a carico di tutti i contribuenti, nel solo caso di Veneto Banca anche a carico degli obbligazionisti subordinati, in spregio all’art. 43 della Costituzione) e vergognosa privatizzazione dei profitti. Sì, perché al costo sopportato dall’erario non fa da contrappeso un incremento stabile del patrimonio pubblico o dei servizi offerti ai cittadini, bensì la ghiotta opportunità per questa o quella banca privata – per ora Ubi e Intesa, ma presto qualche colosso straniero – di ricevere in regalo dallo Stato istituti di credito che vantano reti assai capillari e sono ormai ripuliti dalla maggior parte dei crediti problematici accumulati nel tempo.
Nel frattempo, a Siena l’opinione pubblica si diletta di cene a luci rosse ed elegge Padoan in parlamento, senza fare un plissé.