
I consensi nei confronti di Matteo Messina Denaro sono sempre più in calo all’interno dell’organizzazione mafiosa siciliana, di conseguenza la sua leadership vacilla. Nonostante tutto ciò, la mafia trapanese è organizzata sempre con gli stessi mandamenti (4 mandamenti con 17 famiglie) e continua ad avere regole leggermente differenti rispetto a Cosa Nostra palermitana. La crisi è causata dai continui blitz ad opera delle forze dell’ordine che tentano di scardinare la rete di fiancheggiatori e sostenitori del boss di Castelvetrano. Cosa Nostra trapanese, nonostante i colpi subiti, continua ad essere viva ed attiva negli appalti pubblici, infiltrata nel tessuto economico e politico grazie a soggetti che da sempre sostengono il boss.
Messina Denaro mantiene un certo carisma all’interno delle locali trapanesi ed i sequestri continui non riescono ad annientare l’enorme giro d’affari. Il cerchio si stringe anche con l’arresto di Vito Nicastri con altri 11 fedelissimi del boss accusati di associazione mafiosa, estorsione, favoreggiamento, intestazione fittizia di beni. L’imprenditore trapanese, conosciuto anche come “il Signore del vento”, ha finanziato la latitanza del boss. La DDA di Palermo ha sequestrato un patrimonio di 1,3 miliardi di euro e 43 società.
Nicastri, 62 anni ed originario di Alcamo, è un imprenditore attivo nel settore fotovoltaico e eolico. Tra il 2002 e il 2006 ha avuto il numero più alto di concessioni in Sicilia per costruire parchi eolici. Grazie alla collaborazione del pentito e cugino del boss Lorenzo Cimarosa, deceduto nel gennaio 2017, si è venuto a conoscenza del passaggio di denaro da Nicastri a Michele Gucciardi, uomo d’onore, e da questi a Francesco Guttadauro che li consegna al boss latitante dal 1993.
Capitali provenienti sia dall’impianto eolico di Alcamo che dalla vendita all’asta di terreni appartenenti agli eredi di Nino e Ignazio Salvo, gli esattori di Cosa Nostra. Parte dei capitali vengono reinvestiti in ambito immobiliare grazie all’appoggio della famiglia D’Alí da sempre vicina ai Messina Denaro. Il senatore Antonio D’Alí è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ma non per questa indagine i D’Alí stipendiavano sia il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco, che lo stesso boss trapanese al quale risultano versati anche dei contributi nel settore agricolo.
Terra bruciata, quindi, intorno al boss trapanese e, a parte alcuni fedelissimi, non può contare sull’appoggio delle famiglie palermitane sottomesse ai corleonesi. È bruciato all’interno della Cupola dopo le dichiarazioni di Maria Concetta Riina che indica Messina Denaro quale detentore del patrimonio del padre. In apparenza il boss sarebbe sempre più solo in Sicilia e potrebbe essersi rivolto alla ‘ndrangheta per ottenere le giuste coperture. Con i cugini calabresi condivide alcune affinità sia nella gestione della locale che nell’appartenenza a logge massoniche.
Forte nel suo territorio, ma debole se giunge alle porte di Palermo, Messina Denaro vede sgretolare la sua rete di protezione familiare ed imprenditoriale. Il supporto della sponda calabrese potrebbe garantirgli protezione e basi logistiche anche al Nord Italia. La Sicilia per Matteo non è più sicura.