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La verità di Ferramonti

| 26 Gennaio 2018 | ATTUALITÀ

Ferramonti, nel comune di Tarsia (Cosenza), è considerato il primo e il più grande campo italiano di internamento o concentramento per ebrei, voluto dal regime fascista nel giugno del 1940: vi vennero internati ebrei, apolidi e slavi. Ma a differenza di Auschwitz o Dachau o Bergen Belsen e altri più tristemente noti campi di concentramento voluti dal nazismo e suoi seguaci, Ferramonti non fu un campo di sterminio, ma luogo di internamento o comune prigionia in cui transitarono oltre duemila ebrei.

Le condizioni di vita nel campo rimasero sempre nei limiti dell’umana morale. Nessuno degli internati fu mai vittima di violenze e non un solo internato ne uscì mai per essere deportato nei lager tedeschi. Non vi furono consumati gli atti violenti e disumani propri della criminalità nazista, e gli unici deceduti di morte violenta all’interno del campo furono quattro internati, durante un mitragliamento da parte di un caccia alleato in duello con un velivolo tedesco (agosto 1943). Anzi, le autorità del campo non permisero in nessuna maniera di esaudire le richieste da parte tedesca, tant’è che vennero deportate solo quelle persone che avevano precedentemente chiesto un trasferimento dalla Calabria ad un confino libero in alcuni centri del nord Italia, e che vennero poi a trovarsi loro malgrado sotto l’occupazione tedesca, dopo l’armistizio del settembre 1943.

Alcuni lamentano il disinteresse degli storici riguardo a Ferramonti; il motivo di questo disinteresse lo dice la storia: non si tratta di un campo di sterminio ma di una vera e propria prigione.

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Il campo venne di fatto costruito non per logiche razziali ma per motivazioni dovute ad interessi economici in un’area malarica in progetto di bonifica da parte del costruttore Eugenio Parrini; la costruzione non fu che un ampliamento di un cantiere già presente sul luogo, e le baracche destinate agli ebrei erano state usate in precedenza da comuni operai impegnati nel progetto di bonifica.

Agli internati di Ferramonti era concesso ricevere posta e cibo dall’esterno; all’interno del campo potevano organizzarsi elleggendo propri rappresentanti, avevano l’infermeria e la farmacia, una scuola, l’asilo, la biblioteca, il teatro, due sinagoghe, una cappella cattolica ed una cappella greco-ortodossa. Le coppie potevano sposarsi e diverse coppie vi si sposarono; durante il periodo di attività nacquero in tutto 21 bambini. Dall’estate del 1942 venne concesso agli internati, che ne facevano richiesta, di poter lavorare al di fuori del campo per integrare la scarsità delle razioni alimentari.

Tutti gli internati godevano inoltre dell’assistenza continua della Delasem, l’ente di assistenza ai profughi creato nel 1939 dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ed autorizzato dallo stesso governo fascista. Vi operava anche la “Mensa dei bambini” di Milano, diretta da Israele Kalk. Il Vaticano non fece mancare il suo supporto attraverso la presenza costante del frate cappuccino Callisto Lopinot. Si distinsero ancora per umanità il primo direttore, Paolo Salvatore, che venne in seguito allontanato dal campo agli inizi del 1943 per il suo atteggiamento troppo “permissivo” nei confronti degli internati, così come il maresciallo del campo, Gaetano Marrari, che viene ricordato dagli ex internati per la sua umanità.

Dopo la liberazione da parte degli alleati (settembre 1943) il campo rimase aperto sotto una direzione ebraico-inglese, fino alla fine della guerra, ma molti ex internati rimasero a Ferramonti anche negli anni successivi fino alla chiusura che avvenne l’11 dicembre 1945.

Fu per tutti questi motivi che, a liberazione avvenuta, le relazioni ufficiali del Regno Unito descrissero Ferramonti come un vero e proprio villaggio. I lager nazisti erano tutt’altra cosa.

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