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La Shari’a nei tribunali d’Europa (del nichilismo occidentale)

| 11 Agosto 2017 | ATTUALITÀ, CULTURA

La caduta dell’Impero Romano di Occidente sotto la spinta di diverse popolazioni di origine germanica portò alla nascita dei così detti Regni romano-barbarici. A caratterizzarli, fra le altre cose, il principio della personalità del diritto privato e di parte del diritto penale, così che agli invasori si continuavano ad applicare le rozze consuetudini barbariche, mentre le popolazioni romanizzate (e conquistate) potevano continuare ad utilizzare il sia pur alluvionale ed esausto diritto classico, ancorché ridotto in epitomi, trattatelli, miscellanee in cui affioravano tratti anche importanti di diritto germanico. Si va dall’Editto di Teodorico in Italia, alla Legge romana dei Burgundi in Francia, fino alla Lex Romana Wisigothorum in Francia occidentale e Spagna.

Le complessità di questo sistema – oltre che la sua fortissima correlazione con una concezione patrimonialistica ed etnicistica dello Stato, che non esiste autonomamente se non come possedimento del re, il quale a sua volta difende non un territorio, ma piuttosto una popolazione (una tribù, spesso nomade) che per questo gli deve fedeltà – sono temi anche di grande interesse accademico ed intellettuale, che tuttavia si credevano confinati ai testi di Storia del diritto romano e del Diritto medievale.

E invece no. Come è giusto che sia in un Occidente che ha reintrodotto corvée (sub specie di baratto amministrativo), servitù della gleba (presso i robotizzati centri Amazon) e sostanziale schiavismo, anche il diritto personale è tornato prepotentemente di moda. Esistono infatti nel Regno Unito, ormai da una ventina d’anni, Corti islamiche (ad oggi circa un centinaio) e Consigli della Shari’a, i quali – a credere ai reportage giornalistici che si sono occupati della questione – contemplano tranquillamente la poligamia, le mutilazioni genitali, il ripudio della moglie (il talaq) e così via. Ugualmente tratte da quel noto testo giuridico che è il Corano sono le norme successorie (agli uomini va il doppio che alle donne), quelle per l’affidamento dei figli, secondo alcuni giornalisti finanche norme penali (a base di frustate, parrebbe di capire).

E la cosa più bella è che le Corti islamiche sono organismi almeno apparentemente legali, in quanto annoverate fra i collegi arbitrali ai sensi del British Arbitration Act. Certo, dovrebbero statuire solo in relazione a diritti disponibili e le pronunce sono impugnabili qualora contrarie all’ordine pubblico (soprattutto in materia di rispetto dei Diritto Umani in generale e di diritti delle donne) in particolare. Ma queste impugnazioni sono rarissime. Ed i membri dei Consigli della Shari’a spesso fanno da mediatori culturali nei casi di divorzio innanzi le Corti inglesi, che dunque finiscono per sussumere nella common law pratiche esecrabili di abuso e sottomissione.

Risposte inadeguate al problema dell’inconciliabilità tra ordine pubblico internazionale (ed interno) e “legge” islamica arrivano da molti Paesi europei, soprattutto in materia di matrimoni poligamici (tipico è ad esempio il caso della Spagna, dove si registra una scollatura significativa tra le disposizioni codicistiche, piuttosto rigide, e le concrete sentenze emesse dai giudici di merito).  La norma più incredibile si trova, neanche a dirlo, nella Direttiva 2003/86 dell’Unione europea del 22 settembre 2003 relativa al diritto al ricongiungimento familiare, in cui – in sostanza – si afferma il principio secondo cui è il marito poligamo a scegliere con quale delle mogli ricongiungersi; tuttavia una certa benevolenza rispetto ad istituti distantissimi dalla nostra cultura si riscontrano un po’ dappertutto, Italia compresa (nota la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari n. 198 del 16 maggio 2008, proprio in relazione a un caso di talaq in Egitto).

Ma il problema potrebbe, entro breve termine, rivelarsi ancora più grave, andando ad incidere sul diritto penale tramite l’aberrazione nota come “reato culturalmente motivato”, quel reato cioè in cui la condotta incriminante, ritenuta antigiuridica in un ordinamento, sarebbe non solo approvata o facoltizzata, ma, molto spesso, addirittura imposta nel Paese di provenienza del reo. E se negli Stati Uniti questo relativismo ha portato nel tempo a sentenze imbarazzanti (sono note assoluzioni o condanne molto lievi per madri orientali che hanno ucciso i propri figli, oltre che per mariti indocinesi dediti all’uxoricidio), in Europa si è talvolta colorato di razzismo al contrario, come nel caso della pronuncia tedesca che riconobbe un’attenuante culturale al giovane sardo che aveva brutalizzato e seviziato quasi a morte la fidanzata fedifraga (pronuncia che quasi aprì una crisi diplomatica).

Fortunatamente, per una volta l’Italia è messa meglio di altri, sia per quanto attiene il legislatore, che ha voluto stigmatizzare con fattispecie specifiche alcune pratiche culturalmente orientate in quanto ritenute particolarmente odiose (le anime belle tuttora alzano il sopracciglio e spalancano la bocca a sedere di gallina, quando si ricorda l’art. 583-bis, c.p.), sia dal punto di vista della giurisprudenza, che non ha mai riconosciuto l’attenuante culturale ed anzi, in alcuni casi, l’ha addirittura utilizzata in senso opposto, derubricandola a “futile motivo” (tutti ricordano il caso della povera Hina). La Cassazione, ha correttamente affermato che “in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in altrettanti statuti individuali quanto sono le etnie che la compongono”; resta il quesito su fino a quando terrà il punto.

Ma il problema non è questo. Il problema è che certi argomenti, elaborati nelle Torri d’avorio di certe università, finiscono per funzionare come falla (per ora piccola, ma destinata a ingrandirsi) nell’ultima diga rimasta allo Stato di diritto, cioè l’ancoraggio del sistema giuridico ai valori costituzionali (ordine pubblico interno) ed ai diritti dell’uomo sanciti per trattato (ordine pubblico internazionale), aprendo così la strada una molteplicità di ordinamenti concorrenti fra loro, dunque in lotta fra loro.

Detto in termini più brutali il problema è – lo si capisce anche senza aver letto Santi Romano – che nell’incontro-scontro fra civiltà totalizzanti (in cui le dimensioni religiosa, politica, privata-familiare e pubblica sono tutt’uno) e una civiltà, la nostra, in cui l’ideologia del relativismo nichilista e dell’arbitrio personalistico ha scardinato qualsiasi riferimento etico (per cui, in buona sostanza, tutto è giusto perché nulla lo è), noi abbiamo già perso.

TAG: Corti islamiche, Multiculturalismo, Reato culturalmente orientato
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