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Le parole sono importanti

| 7 Luglio 2017 | POLITICA

Reporter: Io non lo so però senz’altro lei ha alle spalle un matrimonio a pezzi.
Michele: No, che dice?
Reporter: Forse ho toccato un argomento che non…
Michele: No, no. È l’espressione. Non è l’argomento, non è l’argomento, non è l’argomento è l’espressione: “matrimonio a pezzi” ma come parla?
Reporter: Preferisce “rapporto in crisi”? Ma è così kitsch.
Michele: “Kitsch” ma dove le andate a prendere queste espressioni? Dove le andate a prendere?
Reporter: Io non sono alle prime armi.
Michele: “Alle prime armi” ma come parla? Il linguaggio è…
Reporter: Anche se il mio ambiente è molto cheap.
Michele: Il suo ambiente è molto?
Reporter: È molto cheap.
Michele: Ma come parla?
Reporter: Senta ma lei è fuori di testa!
Michele: Come parla? Come parla? Le parole sono importanti. Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!

 

Secondo il Dizionario Treccani, l’aggettivo “migrante” si attaglia a qualcuno (una persona, un popolo, uno stormo di uccelli) che “si sposta verso nuove sedi”. Nel linguaggio giornalistico indica invece chiunque si trovi o giunga in Italia senza esserne cittadino. Grazie a questa traslazione del significato dell’aggettivo è possibile nascondere una enorme confusione concettuale, così da veicolare messaggi che quando va bene sono ambigui, quando va male francamente falsi.

Dal punto di vista sociale, si confonde il “migrante” con l’”immigrato”, cioè a dire colui che passa sul territorio nazionale per andare altrove e colui che invece entra in Italia per restarvi. È pur vero che, dopo la grande dimostrazione di fratellanza europea di Spagna, Francia e Austria, il “migrante” diviene spesso un “immigrato” malgrado sé, ma è comunque innegabile che si tratti di due situazioni oggettivamente diverse in ordine alle risposte che lo Stato si trova a dover dare in termini di accoglienza, welfare e sanità.

Dal punto di vista giuridico, si confonde l’immigrato clandestino da quello regolare. Anzi, l’aggettivo “clandestino” è stato del tutto bandito dal linguaggio giornalistico in quanto ritenuto termine con venature xenofobe, quando non addirittura razziste. Secondo l’Associazione Carta di Roma, il “clandestino non esiste”. Secondo il Dizionario Treccani, invece, sì ed è colui che “che si trova od opera oppure si svolge in una situazione irregolare, senza l’approvazione dell’autorità o contro il divieto delle leggi vigenti”.

Dal punto di vista economico, confonde coloro che risiedono in Italia per specifiche esigenze di lavoro (talvolta anche assai ben retribuito) da coloro che vi arrivano senza nulla, strappati ai loro Paesi da guerre, carestie, o semplicemente una propaganda martellante che descrive l’Europa come un Eden in realtà inesistente. Nessuno, escluso Boeri, si sognerebbe mai di fare di tutta l’erba un fascio, paragonando la situazione del manager statunitense, del piccolo imprenditore edile albanese e dell’immigrato appena sceso da un barcone.

Questa confusione non è, ovviamente, fine a se stessa, ma ha una specifica valenza di propaganda politica ed è dunque tanto più grave quanto più è propalata da organi che si definiscono di informazione.

Lo stesso slittamento semantico si registra in relazione a termini geografici. Il caso più clamoroso (tralasciando il caso del Canale di Sicilia, che si estenderebbe dalle Colonne d’Ercole fino al Golfo della Sirte) è quello della parola “Europa”, che riferita ad una specifica regione delle terre emerse – ancorché dagli incerti confini orientali – è ormai divenuta, nel parlare quotidiano, sinonimo di “Unione Europea”, cioè di un’organizzazione internazionale a carattere sovranazionale avente natura politica ed economica.

Anche in questo, è facile comprendere la strumentalità di questa sovrapposizione di concetti eterogenei, volta a una facile propaganda di segno opposto ma uguale a quella del Principe di Metternich a proposito del nostro Paese. Così, oggi, sentiamo di continuo rimbombare in televisione il mantra secondo cui l’Italia “non può uscire dall’Europa”, il che è vero a livello geografico, ma ignora l’art. 50 del TUE dal punto di vista politico. Non solo: se l’Unione Europea “è” l’Europa, fintantoché esisterà la seconda vi sarà anche la prima, che dunque assume connotati di irreversibilità che nessun trattato internazionale ha mai avuto, né preteso di avere (basti leggere la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati).

Lasciamo al lettore il divertimento di trovare altri esempi (e ve ne sono molti), per evidenziare come la medesima strumentalità politica talvolta si riscontri nel comportamento opposto, per cui a cose identiche si danno nomi differenti, giusto per diversificare l’offerta (come sugli scaffali di un supermercato).

Così, a sinistra (?) del PD troviamo Sinistra Civica, Sinistra Italiana, Mdp, Possibile, Impossibile e via di questo passo. Sono tutti a favore dell’UE e dell’Euro, vogliono tutti la patrimoniale, la riforma del catasto e la tassa di successione, amano tutti talmente tanto i poveri da voleri poco poco raddoppiare. E ovviamente, avendo fondamentalmente lo stesso programma economico, andranno al governo con quello del Jobs Act.

Sunt nomina consequentia rerum?

TAG: Europa, migranti, Unione Europea
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