
Nel villaggio globale ogni cosa che accade in qualsiasi, remota parte del mondo, viene sciorinata sotto i nostri occhi, disvelata, offerta in pasto alla curiosità.
Così ieri abbiamo assistito alla cattura di un boss nella mitica San Luca, dove è diventata missione impossibile anche l’elezione del sindaco e del consiglio comunale, e ci è stata offerta l’opportunità di vedere con i nostri occhi un cittadino di quella comunità nell’atto di baciare la mano con devozione all’arrestato. Un gesto spontaneo, quasi naturale, che avrà fatto storcere il naso ai tanti benpensanti, adusi a scandalizzarsi per atteggiamenti e consuetudini di popolazioni, ancora primitive, che trascinano la loro esistenza nell’estremo sud del Paese.
Per me, calabrese che vive a Milano, ma ha trascorso decenni indimenticabili in quella Rosarno che Giorgio Bocca ha definito un inferno, e vi rientra periodicamente, come irresistibilmente attratto da un campo magnetico, quelle immagini sono state un
doloroso pugno nello stomaco, qualcosa che ti lascia senza respiro.
Ho subito pensato: siamo tutti colpevoli, noi che, trascinati da ambizione ed egoismo, non abbiamo fatto abbastanza per trasmettere, da classe dirigente, adeguati esempi di comportamento; quelli che hanno chiesto, o solo accettato, i voti della mafia pur di tagliare i loro traguardi; lo Stato, che doveva essere unitario, ma ha consentito che parte del suo territorio fosse conquistato e controllato dalle consorterie criminali.
Quel cittadino di San Luca è il frutto malato di un albero che si chiama Italia e, se ieri ci ha fatto soffrire, dobbiamo ammettere che ce lo meritiamo.