Il processo di formazione del governo, proprio quando i giochi sembravano fatti, ha preso una piega inaspettata ed è degenerato in una crisi istituzionale senza precedenti che vede contrapposta la presidenza della Repubblica al parlamento.
Lo scontro scoppia domenica sera con la rinuncia da parte del premier incaricato Giuseppe Conte, seguita dalla dichiarazione stampa del presidente Sergio Mattarella, la quale ha brutalmente spaccato in due il paese. Com’è risaputo il capo dello Stato si è rifiutato di firmare la nomina dell’economista Paolo Savona al ministero dell’economia e delle finanze (mef) a causa delle sue posizioni, espresse in passato, contrarie all’euro. Su questo punto è bene fare due precisazioni fondamentali. In primo luogo l’uscita dall’euro non è presente nel “contratto per il governo del cambiamento” accordato da Movimento 5 Stelle e Lega. In secondo luogo, lo stesso Savona aveva inviato nei giorni scorsi una lettera al Quirinale per cercare di stemperare gli animi. L’economista afferma che non avrebbe mai messo in discussione la moneta unica ma avrebbe “chiesto all’Unione Europea di dare risposta alle esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-membri”.
Alla fine però questa lettera rassicuratrice non è bastata ad evitare il veto di Mattarella sul nome dell’economista sardo al mef. Eppure non è la prima volta che un presidente della Repubblica si rifiuta di nominare un ministro. Il precedente più recente è quello di Giorgio Napolitano che nel 2014, durante il processo di formazione del governo Renzi, pose il veto sul nome di Nicola Gratteri al ministero della giustizia. La differenza, ovviamente, è che nel caso attuale il no di Mattarella su Savona ha causato la rinuncia all’incarico da parte di Giuseppe Conte e di conseguenza l’affondamento del governo Lega-M5S ancor prima che nascesse.
Quindi dev’essere necessariamente successo qualcos’altro, sicché non è la prima volta che il presidente della Repubblica si rifiuta di nominare un ministro.
Quel qualcosa in più è l’ultimatum posto, con grande spregiudicatezza, da Salvini a Mattarella. Mai prima d’ora il capo di un partito politico si era sognato di imporre la propria volontà alla massima carica dello Stato. Il leader della Lega ha ovviamente posto il suo ultimatum sul ministero dell’economia. O Savona o si va al voto! Ed è proprio questo affronto che non è andato giù a Mattarella. Nella dichiarazione stampa di domenica 27 maggio il capo dello Stato ha affermato che il presidente della Repubblica, firmando i decreti nomina dei ministri proposti dal premier incaricato, “svolge un ruolo di garanzia” e proprio questo ruolo “non ha mai subito né può subire imposizioni”. Con questa affermazione il presidente ha implicitamente tirato in causa l’ultimatum di Salvini su Savona, che ad ogni modo era già trapelato nei giorni precedenti da quotidiani e fonti vicine al Quirinale. Mattarella espresse immediatamente la sua contrarietà su Savona e propose al suo posto altri nomi, tra cui quello di Giancarlo Giorgetti, il vice segretario della Lega. Ma Salvini è stato perentorio e non ne ha voluto sapere. O Savona o si va al voto!
È stata questa inedita provocazione a causare l’attuale crisi istituzionale e la decisione di Mattarella che ha fatto saltare il banco. Ma perché mai Salvini avrebbe dovuto provocare il capo dello Stato acuendo lo stallo politico proprio quando la Lega era riuscita a raggiungere un accordo con il Movimento 5 Stelle? La risposta è molto semplice. Tutti i sondaggi, che in questi giorni si stanno moltiplicando a dismisura data la quasi certezza delle elezioni anticipate, segnalano un autentico boom della Lega. Per esempio, secondo un sondaggio condotto da Swg per Tg La7, il partito di Salvini è schizzato al 27,5 % asfaltando con violenza Forza Italia che sarebbe crollato a un miserrimo 8 % mentre i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni oscillano attorno alla soglia di sbarramento (3,8%). Forte di questo consenso in rapida crescita già a partire dal 5 marzo, Salvini ha provocato il presidente della Repubblica come mai nessuno aveva fatto prima d’ora accendendo la miccia di questa crisi istituzionale che infine ci riporterà al voto, il traguardo tanto desiderato dal leader della Lega. Perché accontentarsi del Viminale quando si può ambire a palazzo Chigi?
Nel mezzo di questo scontro si è trovato Luigi Di Maio. A nulla sono valsi i suoi tentativi per convincere Salvini ad accettare un compromesso, infruttuoso si è rivelato il fantasioso tentativo di scomporre il ministero dell’economia e delle finanze, a niente sono serviti gli sforzi finalizzati a tenere in piedi l’accordo. Alla fine Di Maio si è svegliato e si è reso conto, tutto d’un tratto, di essere stato vittima del gioco politico tramato dal leader leghista perché alla fine il pentastellato ha dovuto riconoscere che “Salvini voleva il voto”.