In Italia sembra impossibile liberarsi dalla logica delle fazioni, dei personalismi, dei conflitti strumentali, utilizzati per garantire la continuità ad un ceto politico che ha usato le emozioni del Paese al solo fine di sopravvivere a se stesso.
Per vent’anni anni l’antiberlusconismo è stato il collante di una filiera di partiti, disordinatamente schierati sul fronte della sinistra politica, non in grado, con i loro governi, di produrre alcun reale cambiamento, ma sfiancati da inutili e sterili mediazioni.
Al di là di un aumento spropositato della pressione fiscale, non è dato ricordare interventi significativi, finalizzati a ridurre le diseguaglianze, riconoscere diritti civili, promuovere la meritocrazia, snellire l’opprimente apparato burocratico.
Sino all’avvento di Renzi, unioni ed ulivi hanno imperversato senza costrutto, alternandosi ad opache e spesso risibili esperienze di centrodestra, senza proporre alcuna ragionevole idea di cambiamento, ma, anche nella legislatura che volge al termine, la spinta riformista, che sembrava destinata al successo, è stata travolta da una volontà popolare abilmente orchestrata dagli strateghi della conservazione.
Per tutti quelli, che avevano creduto in una svolta, si aprono adesso scenari confusi, perché riprende forza ogni tipi di particolarismo e, con la perdita di vocazione maggioritaria da parte dell’inquieto ed irrisolto PD, anche Renzi sembra vagheggiare larghe ed eterogenee coalizioni.
Si corre il rischio che, ancora una volta, il sogno riformista si trasformi in incubo e che il Paese debba rinunciare alla sua palingenesi nel nome delle solite pastoie ideologiche: il novecento che divora come Crono ogni speranza del nuovo millennio.