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Pechino e la deriva Maoista

| 17 Luglio 2020 | ATTUALITÀ

Da qualche mese è uscito un libro, edito da Hachette Book Group, scritto da KIshore Mahbubani, già Ambasciatore e Professore alla National University of Singapore, dal titolo emblematico e di stretta attualità: “Has China won?”.

Ha la Cina vinto la sua sfida o, più estensivamente, sta la superpotenza asiatica portando a termine il proprio piano di consolidamento nei confronti di quelle che, per tempo, furono colonie britanniche e portoghesi?

Sembra proprio che, in questi ultimi mesi, lo sforzo di Pechino per imporre il suo controllo su zone sensibili, ad autonomia speciale, abbia raggiunto un punto di non ritorno.

Ci si ricorda ancora la formula coniata qualche decennio fa “un paese, due sistemi” che aveva in un primo momento raccolto consensi ed apprezzamento tra analisti e diplomatici, ma forse non convinto del tutto coloro che vivevano quotidianamente la realtà cinese.

La repressione di ogni forma di manifestazione di dissenso è stata ultimamente inasprita con l’emanazione di una serie di provvedimenti normativi che colpiscono riunioni, assemblee, siti internet, blog, giornali.

La lettura dei provvedimenti messi in atto, fa subito comprendere come le norme non specifichino le fattispecie punibili.

La portata sembra essere “erga omnes”, contro tutto e tutti, in un clima che avvantaggia il legislatore e le forze di polizia a discapito di tutta una serie di comportamenti e manifestazioni pacifiche, non violente ma di fatto vietate.

L’introduzione di questi provvedimenti ha portato ad una rapida celebrazione di processi che hanno comportato l’irrorazione di pene molto severe.

In precedenza le condanne inflitte erano lievi, servivano da ammonizione, oggi scoraggiano qualsiasi forma di dissenso.

Un ritratto lucidamente realista lo traccia Kong Tsung-gon, autore del libro: “Ombrelli: un racconto politico da Hong Kong”, resoconto dei processi agli attivisti ribelli, in un clima surreale e marcatamente antidemocratico.

A fronte di questa nuova drammatica situazione, non sono mancate le reazioni delle principali Cancellerie europee che hanno manifestato sdegno e sconcerto, in quello che viene definito l’inizio del declino di quelle poche libertà civili che ancora resistevano in Cina, almeno maggiormente nelle zone delle ex colonie.

Persino l’Amministrazione Trump, nota per aver preso posizioni altalenanti, se non radicalmente contrapposte nel corso degli ultimi due anni in materia di rapporti con Pechino, ha stigmatizzato veementemente le recenti decisioni cinesi, per quanto con comunicati stampa irrituali e decisamente poco diplomatici, più da parte del Presidente stesso che del suo entourage.

Atteggiamento del tutto opposto è stato manifestato dalla Russia che ha espresso pieno ed incondizionato appoggio allo storico alleato cinese, promuovendo incontri pubblici e siglando ulteriori accordi commerciali.

A sostenere soddisfazione per questa rinnovata sinergia bilaterale, in una recente intervista, Cui Heng, ricercatore presso il centro di studi russi all’East China National University.

Lo studioso ribadisce come le relazioni sino – russe siano improntate al mantenimento dei relativi interessi commerciali e, soprattutto, della reciproca cooperazione strategica.

Anche il mondo accademico sembra mantenere e avallare quella che è la linea imposta dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese.

Di diverso avviso Fabrizio Francioni, sinologo ed esperto di diritto internazionale, autore del profetico saggio: “Macao 1974 – 1979: ombre cinesi sulla sovranità popolare”.

L’autore sostiene che le prese d posizioni fortemente autoritarie della Cina sull’ex colonia assomigliano pericolosamente all’invasione della Crimea del 2014 da parte della Russia.

Inoltre, prosegue lo studioso, le scelte di Pechino “stricto iure” non sarebbero legittime in quanto violerebbero le norme del trattato sino – britannico che prevedeva la cessione della colonia alla Cina da parte della Corona, a condizioni di speciale autonomia finanziaria e legislativa.

Purtroppo solo a livello teorico, per quanto giuridicamente fondate, le misure restrittive di Pechino potrebbero essere impugnate dalla Corte internazionale di Giustizia per manifesta violazione di norme internazionali, rivendicando la Cina la giurisdizione assoluta sui propri affari interni.

La Cina sta diventando il maggior paese a livello globale contributore per prodotto interno lordo (27.3 trilioni di dollari), ha un sistema politico comunista che garantisce un benessere generalizzato a fronte di una riduzione significativa delle libertà essenziali e sta competendo per la grande sfida del futuro nella gara per la leadership nel mondo delle telecomunicazioni.

Uno scenario geoeconomico e geopolitico che non vuole perdere, una supremazia che rivendica con forza.

Interessante l’analisi del Professor David Shambaugh, docente di Scienze Politiche alla Washington University.

L’accentramento palese di potere di XI Jinping, Segretario del Partito Comunista Cinese, nella propria persona, fa ritornare alla mente quel classico e sperimentato metodo patriarcale di gestione dell’autorità che fu caratteristica dell’epoca di Mao.

TAG: Cina, Pechino
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