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Le vie del Colonialismo Cinese raggiungono l’Africa

| 6 Marzo 2020 | ESTERI
Cina Africa

In questo importante e delicato periodo il Covid-19 domina la scena mondiale mettendo alle corde quasi tutti i governi europei compresa la Cina stessa, che per affrontare l’emergenza corona virus ha subito attuato misure drastiche.

Quella Cina che rappresenta la temuta potenza planetaria sembra infastidita parecchio dal Corona Virus e lo si evince dalle dichiarazioni del reggitore supremo del Partito Comunista Cinese Xi Jinping dove lo stesso afferma che per riprendere tutto dall’inizio in chiave economica la Cina dovrà fare un enorme lavoro dal punto di vista economico e sociale.

Si in effetti le borse asiatiche hanno subito un duro colpo, ma in in primo luogo a risentirne è sempre e comunque l’economia dove il focolaio è localizzato e quindi quella regione cinese dello Huan che conta sessanta milioni di abitanti e dove i consumi di idrocarburi – nel paese che inquina più di tutti e ha una forte domanda interna secondo le stime in area OPEC – sono scesi del 31% e il PIL quell’incoraggiante prodotto interno lordo è sceso di ben 12 punti annunciando un disastro che si ripercuoterà su tutta l’economia cinese.

Il Corona Virus ha davvero dato un colpo significativo all’economia cinese? Qualcuno pensa e formula questa domanda molto semplice per qualsiasi analista ma difficile da comprendere quando si tratta della politica interna cinese che tra l’altro contravvenendo a quella che sarebbe la liturgia del partito comunista, ha sospeso l’assemblea del popolo proprio in vista dell’emergenza sanitaria. Dalla politica interna è facile capire qual’è il clima che si respira a Pechino e dintorni.

In tanti settori economici, strategici europei cominciano già a quantificare i danni che il Corona Virus ha arrecato a Pechino, tuttavia i cinesi seppur hanno sospeso l’assemblea del popolo  e hanno vietato di starnutire sotto la statua di Mao Tze Tung nella piazza di Tien an  Men, non hanno vietato ad altri cinesi di guardare con fiducia verso il continente africano come una delle fonti di approvvigionamento di materie prime per la produzione industriale cinese e anche come fonti di investimenti finanziari alle infrastrutture per favorire una rete interna di commercio che potrebbe dare segnali significativi sulla domanda di manodopera e sulla crescita stessa del Pil di quegli stati africani che faticano ancora a trovare l’identità nazionale in termini economici e politici.

Il Corona Virus di conseguenza non sembra fermare dunque le politiche di espansione che i cinesi adottano non solo nell’area del Sud Est asiatico ma anche verso il continente africano. In effetti il neocolonialismo cinese è una perfetta riproduzione delle politiche coloniali tanto care all’Impero Britannico, così come a quello tedesco e in ultima osservazione anche a quello italiano.

L’immensa distesa africana è un terreno fertile per il settore elettronico dove è possibile produrre con una manodopera a basso costo e senza prestare la minima attenzione al rispetto dei diritti umani che tornano alla ribalta in un’Africa che comincia a parlare più il cinese mandarino che la lingua madre inglese.

La Cina è intenzionata comunque a esportare i suoi investimenti finanziari verso quei paesi dove l’instabilità politica regna sovrana, basti pensare solo ed esclusivamente che in Angola sono emigrati per manodopera oltre 200.000 cinesi nel giro di quattro anni (non sono infetti) questo fa pensare ad un implementazione del capitale umano, seguita da una mole di investimenti da parte di Pechino pari a sessanta miliardi di dollari (Fonte China-Africa Research Initiative) americani investiti in aree di sviluppo strategiche che potrebbero finalmente creare un importante ponte economico tra il continente nero e Pechino.

Gibuti diventa la prima base commerciale e militare e porta d’ingresso tra il Canale di Suez e il Sud Est asiatico. Il porto della piccola repubblica di Gibuti diventa un importante Hub strategico sul piano commerciale e militare, in effetti la presenza cinese nel Golfo di Aden e quindi nel corno d’Africa è da considerare come quel trampolino di lancio che dal 2.000 in poi porterà i cinesi a cooperare con stati africani come il Kenia, la Nigeria, il Niger, l’Angola, il Sud Africa.

Basti semplicemente pensare che in Nigeria vivono più cinesi che ai tempi del dominio britannico e tutto questo è dovuto alla capillare presenza di piccole imprese commerciali cinesi che nel giro di dieci anni si sono introdotte nel tessuto commerciale africano indebolendo quello indigeno e rafforzando la presenza di prodotti cinesi a basso costo favorendo così anche un graduale cambiamento delle modalità di pensiero da parte delle popolazioni africane.

In sostanza dal Mar Rosso, all’Oceano Atlantico e fino al Mar Mediterraneo sono tantissimi gli stati africani che iniziano ad aprire le porte al nuovo competitor cinese che nel giro di vent’anni ha iniziato a colonizzare l’Africa con un progetto chiaro e condiviso anche dai politici africani.

Il piano parte dagli accordi firmati in precedenza dal Presidente Cinese Hu Jintao in merito all’esportazione di petrolio che permise alla Cina non solo la partnership commerciale con l’immensa Africa ma anche l’approvvigionamento di oro nero da parte della CNOOC (China National Offshore Oil Corporation) diventando di fatto l’attore principale sul mercato locale.

Questo accordo ha facilitato il lavoro al successore Xi Jinping – dove tra l’altro in presenza di governi deboli, corrotti e in preda ai conflitti tra le diverse etnie e riguardanti gli assetti geopolitici – ha erogato prestiti pari a 124 miliardi di dollari, la mossa più astuta da parte di Pechino che praticamente ha già acquisito le risorse strategiche, politiche ed economiche di molti stati africani che non potranno mai estinguere il debito fatto con Pechino.

Con buona pace di tutti e sotto gli occhi dell’Occidente preoccupato dal Corona Virus e non da una Cina che ha firmato accordi bilaterali con gli USA sui dazi di importazione da un lato mentre dall’altro cerca di controbilanciare gli esiti negativi sull’economia di esportazione cinese portata da una politica occidentale ancora ancorata alle dottrine Keynesiane in parte e al contrasto all’aggressività commerciale cinese nelle arre europee e americane.

La fine del Bipolarismo Globale che un tempo vedeva due blocchi contrapposti come  USA e URSS lascia spazio alla Cina  che sembra intenzionata ad essere protagonista nella politica internazionale in quei settori chiave vicini geograficamente all’aera mediterranea dove la Turchia di Erdogan è solo la punta di quell’iceberg geopolitico molto vicino all’espansionismo cinese sia in chiave economica che in chiave militare.

Il fattore geopolitico potrebbe avere importanti sconvolgimenti nell’area africana sopratutto con la presenza militare cinese nel porto di Gibuti oltre agli investimenti economici a all’apporto di capitale umano cinese a basso costo Pechino ci tiene a rafforzare la presenza militare cinese con il dislocamento nel Mar Rosso e nel Golfi di Aden di naviglio militare che comprende unità logistiche d’appoggio come rifornitori di squadra, pattugliatori marittimi a lungo e corto raggio per il controllo delle rotte commerciali da Gibuti a Pechino e la presenza di fregate e moderni cacciatorpediniere per un operazione di Sea Control  finalizzata ad  allontanare la minaccia della pirateria somala e per osservare più da vicino l’operatività delle flotte NATO presenti nel Mar Rosso.

Cosa dire allora? Se qualcuno pensava che il Corona Virus fosse un modo per ammansire il Dragone Rosso, bè si sbagliava di grosso. Allo stato attuale l’economia interna cinese può subire effetti negativi nel breve e lungo periodo vista l’emergenza sanitaria ma in chiave internazionale la Cina resta comunque il maggior competitor globale che sfrutta le capacità di investimento assorbendo i debiti dei paesi con un Pil ridotto all’osso e con una propensione ad accettare gli aiuti finanziari che di conseguenza permettono ai cinesi il totale controllo della politica interna di quel paese e del tessuto economico, produttivo e sociale.

Un tempo lontano, la Union Jack svettava sul continente nero orgogliosa agli occhi del mondo e dell’impero britannico. Adesso nel terzo millennio la bandiera scarlatta mostra l’emblema del Dragone a quei paesi che rimarranno relegati nelle piccole economie di mercato sempre più ristrette ed incapaci di investire attraverso le politiche internazionali in altri paesi.

TAG: #Covid-19, africa, Cina
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