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La conferma di Gentiloni e la legalità costituzionale

| 16 Febbraio 2018 | POLITICA

Pier Carlo Padoan (Corriere della Sera, 6 gennaio 2018): “L’Italia potrebbe reggere mesi e mesi in cui i partiti negoziano fra loro, se l’attività di governo continua nella sua normalità: non solo l’ordinaria amministrazione, ma tutto quello che può servire a continuare il percorso virtuoso. Gentiloni ha detto una cosa molto importante: il governo governa. In queste condizioni i partiti avranno il tempo per accordarsi; come accade in Germania e in Olanda, per non parlare della Spagna. Potrebbe essere una sorta di nuova normalità europea”.

Silvio Berlusconi (Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2017): nel caso in cui nessuna coalizione riuscisse ad avere una maggioranza autonoma dopo il voto, “la soluzione più corretta sarebbe quella di continuare con questo governo e di consentire un’altra campagna elettorale non brevissima, di almeno tre mesi, che possa permettere ai partiti di far conoscere agli elettori i loro programmi”.

Marco Minniti (La Repubblica, 14 febbraio 2018): “Gentiloni deve continuare come governo di ordinaria amministrazione perché questa è l’intenzione del nostro presidente della Repubblica. Questo rinvio può durare sei mesi, otto mesi, un anno ma poi bisognerà indire ovviamente nuove elezioni. È possibile che Gentiloni venga rieletto non più per un governo di ordinaria amministrazione ma per un vero e nuovo incarico”.

Dichiarazioni diverse, ma tutte rivolte ad una sostanziale svalutazione del valore del voto popolare. Dichiarazioni che, pertanto, impongono una seria riflessione.

Le norme rilevanti. “Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti” e “la prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni” (nel nostro caso, il 24 marzo: art 61, Cost.). “Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti”, le quali “possono essere convocate [anche] per la conversione dei decreti-legge” (art. 77, c. 2, Cost.). Dunque, le Camere – ancorché sciolte – fino a convocazione delle nuove agiscono in regime di prorogatio con poteri che, se non pieni (salvo il limite di cui all’art. 85, c. 3, Cost, relativo all’elezione del Presidente della Repubblica), neppure sono quelli della mera, stretta, “ordinaria amministrazione” (caso tipico: il riesame di leggi rinviate dal Capo dello Stato).

Anche il governo in carica al momento dello scioglimento delle Camere mantiene poteri sostanzialmente pieni. Può emanare decreti legge e chiedere alla Corte dei conti la “registrazione con riserva”. D’altronde, non si può pensare che non valga per il governo in carica al momento dello scioglimento delle Camere quel che vale per il governo in attesa di fiducia (i cui pieni poteri sono stati riconosciuti, in passato, anche dal Consiglio di Stato). Proprio per ovviare a questo “inconveniente”, è maturata da tempo la passi costituzionale per cui il Presidente del Consiglio, allo scioglimento delle Camere, si presenta dimissionario al Presidente della Repubblica, che lo “invita a rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti”.

Il governo in carica. Gentiloni – con una innovazione certo legittima, ma pericolosa – non si è (ancora) dimesso. Il che non gli vieta, certo, di presentare le dimissioni davanti alle nuove Camere appena riunite, o di presentarsi in Parlamento “entro 10 giorni dalla sua [prima] convocazione”, facendo interpretazione estensiva dell’art. 94, c. 3, Cost. (cosa accaduta, per onore di verità, almeno una volta: nel 1948, col governo De Gasperi). In quest’ultimo caso, al di là delle circonlocuzioni verbali di Padoan o di Berlusconi, si creerebbe de facto una maggioranza politica (presumibilmente a guida PD e FI), e tanti saluti alle promesse pre-elettorali.

Rischio eversivo. È, invece, importantissimo precisare un punto. Se Gentiloni non si dimettesse ed agisse ancora come Presidente del Consiglio in carica, se cioè il governo continuasse ad esprimere il proprio indirizzo politico (è forse questa la tesi di Padoan?), ci troveremmo di fronte ad una palese eversione dell’ordine costituzionale, cui dovrebbe seguire una reazione forte e immediata.

Ma da parte di chi? Se è chiaro che il governo che non ottiene – o non richiede – la fiducia debba dimettersi (arg. ex art. 94, c. 3), c’è incertezza sia sulla sanzione da comminare al governo che non si presenti nei termini alle Camere, sia su quale soggetto debba comminare questa sanzione. Il Presidente della Repubblica? Possibile. Ma, in questo caso – anche considerate le parole di Minniti riportate in apertura – quale potrebbe essere l’atteggiamento di Mattarella?

A rispondere, e con forza, dovranno essere tutte le forze politiche schiettamente democratiche. Dovranno essere le persone, anche nelle piazze.

La “nuova normalità europea” – quella del Belgio, della Spagna, dell’Olanda, della Germania – è un ulteriore passo verso lo svuotamento di questo simulacro di democrazia. Se nella legislatura appena terminata i partiti hanno appoggiato “governi del Presidente” al di fuori di un effettivo mandato popolare, nella prossima il mandato popolare (cioè il risultato elettorale) potrebbe semplicemente essere ignorato per un lungo lasso di tempo.

Il risultato non potrebbe che essere un’ulteriore disaffezione degli elettori, con aumento dell’astensione. Un’altra esternalità “positiva”, si immagina, per chi ritiene la democrazia “un rischio”. D’altronde, come chiosò Mario Draghi proprio alla vigilia delle elezioni di cinque anni fa, indipendente dal risultato resta attivo il “pilota automatico” (quello, per inciso, che senza essere eletto da nessuno usa l’imperativo nei confronti di governi e parlamenti).

TAG: berlusconi, Costituzione, Dimissioni, Gentiloni, Minniti, Padoan, Presidente del Consiglio
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