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Anche quando sogni ti trovi il capitalismo alle costole

| 17 Maggio 2023 | POLITICA

Il titolo non è farina del mio sacco ma è una citazione del libro “Realismo capitalista” di Mark Fisher e riassume perfettamente lo stato di malattia pervasiva in cui riversa la nostra società.
Come afferma il teorico inglese nel suo pamphlet di 150 pagine, sembra che l’umanità intera sia giunta all’ultimo stadio di un capitalismo ineluttabile e senza alternativa. Viviamo in una bolla temporale nel quale l’unica dimensione possibile è un eterno presente, viviamo senza saperci proiettare nel futuro e senza ricordare il passato. Tutto ciò che l’arte, la cultura, la politica e la società in generale propongono sembra una pigra riproduzione di qualcosa di già visto, niente è davvero innovativo, neanche l’ideologia.

E così giriamo in tondo come dei criceti in una ruota fatta di ripetizioni maniacali, alimentando i nostri automatismi e assottigliando sempre di più la nostra capacità di slanci coraggiosi e autentici.

Una delle tante cose contraddittorie del neoliberalismo è che, alla sua nascita, si era prefissato di eliminare lo “stalinismo burocratico” che aveva distrutto diversi paesi. Insomma, sembrava che qualcuno ci stesse dicendo, con un sorriso smagliante, “benvenuti nella società smart dove la privatizzazione del cielo e della terra vi permetterà di avere servizi migliori e pratiche amministrative più snelle e veloci. Benvenuti nel post fordismo dove i cittadini si trasformano magicamente in consumatori di oggetti, teorie, valori e relazioni, insomma, dove ognuno può essere la versione migliore di se stesso”

All’epoca, però, nessuno si preoccupò di avvisarci che, in verità, era tutta una grande bufala. Nessuno ci disse che la burocrazia non stava scomparendo per lasciare spazio a benessere e agevolezza, anzi, Margaret Tatcher, una delle madrine del neoliberalismo spietato, negli anni ’80 non si vergognò di affermare che “there is no alternative”, ce lo disse chiaro e tondo, al capitalismo non c’è alternativa. E, così, ogni sogno fu ucciso sul nascere. In realtà, lo “stalinismo burocratico” che tanto si voleva combattere si stava deliberatamente spostando sotto il tappeto. Anzi, si stava spostando all’ultimo piano dei grattacieli, quello dei CEO e dei manager d’azienda irraggiungibile ai più. Lì, il mostro burocratico, si è lentamente trasformato da potere statale (paterno e protettivo) a mostro polimorfo capace d’insinuarsi ovunque e di rendersi invisibile. Conseguenza: oggi, quando si ha un problema con il capo o si vuole risolvere una semplice briga burocratica da “cittadino”, nella maggior parte dei casi, non si sa mai a chi rivolgersi e, quando una risposta arriva, questa sarà nel migliore dei casi qualcosa simile a “mi dispiace, ma non dipende da me, non so come aiutarla”.

Isolati, confusi e disorientati non sappiamo più orientarci in una società iperstrutturata dove la struttura è diventata così grande da rendersi trasparente. Come si fa a combattere il capitalismo se non lo si riesce neanche a scrutare?

Lo Stato è ormai inglobato in questa enorme maglia fatta di verticalizzazioni del potere, deviazioni di responsabilità e virtualizzazione delle idee, non si capisce dove finisce lo Stato e inizia il “mostro”. Lo Stato non emana, non decide, non analizza e, se lo fa, lo fa seguendo le tendenze e gli interessi della finanza. L’economia decide la politica e non viceversa. La sensazione di disorientamento è generale e sempre maggiore, ci sentiamo come se avessimo perso il controllo delle nostre potenzialità, come se qualcuno ci avesse buttato nelle sabbie mobili ma, più che sprofondare, siamo tutti fermi a guardarci alienati l’un l’altro senza sapere cosa fare.

Le lotte civili e sociali ci smuovono gli animi ma, allo stesso tempo, ci restituiscono il riflesso della nostra stessa impotenza. Le cause per i diritti sociali e civili sono diventate vendibili e profittevoli, sono diventati slogan e prodotti con tanto di sponsor e testimonial. Questo è stato possibile perché il potere si è trasformato da “persona” fisica, autoritaria e presente, in “cosa” ambigua, assente e mimetizzata. La “cosa” è come un fiume in piena che ormai rompe ogni argine e troviamo anche nei nostri sogni. In una società del genere, decentrata, globalizzata e senza nuclei di potere, va da sé che la comunicazione sia arrivata a ricoprire un ruolo fondamentale. Come afferma sempre Fisher, la catena di montaggio oggi è rappresentata dal “flusso d’informazioni”, “[…] È insomma proprio comunicando che la gente lavora. Per dirla con Norbert Wiener, comunicazione e controllo si legano a vicenda. Lavoro e vita diventano così inseparabili. Persino quando sogni ti ritrovi il Capitale alle costole”. Avendo la comunicazione un ruolo tanto centrale si capisce perché i suoi luoghi -oggi perlopiù virtuali-e le sue politiche siano stati sequestrati da chi davvero governa il mondo, ovvero i ricchi.

La Parola, la bellissima e vigorosa Parola, è stata così spogliata del suo delicato e magico potere di trasformazione per diventare essa stessa merce di scambio. Come una bandiera, la lingua viene issata nei cortei e nei parlamenti illudendosi di star facendo una lotta ideologica e strutturale ma in pochi hanno capito che, in realtà, anche il concetto di ideologia è stata fagocitato dal capitalismo e l’unica struttura che si perpetua è sempre e comunque quella del capitalismo. In poche parole, l’anticapitalismo è anch’esso capitalismo. Žižek, studioso citato da Fisher nel suo libro, sostiene che l’ideologia capitalista consiste proprio nella sopravvalutazione del “credo” inteso come “atteggiamento interiore soggettivo”, ciò significa che non importa come agisci con i tuoi comportamenti esteriori, non importa ciò che fai perché fino a quando “nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo.” Tradotto in termini concreti, non è importante ciò che fai ma ciò che pensi, se sei un feroce capitalista oppressore ma, a parole, dici di essere inclusivo, tollerante, antirazzista e femminista va tutto bene perché è l’ideologia quella che conta, è ciò che hai dentro che è importante.

Una volta l’idealista faceva coincidere i suoi pensieri e i suoi valori con le sue azioni, oggi fare questo è diventato sempre più difficile. Bisognerebbe chiedersi il perché. Perché si tollera la contraddizione in termini, perché si giustifica sempre l’incoerenza? Perché non capiamo che è proprio in questo passaggio da “idealisti di fatto” a “idealisti a parole” che abbiamo perso l’unica componente utile alla vera evoluzione dell’umanità, ovvero il coraggio?

Forse abbiamo smesso di farci queste domande proprio nello stesso momento in cui abbiamo deciso di sostituire la parola “evoluzione” con la parola “progresso”. Abbiamo voluto a tutti i costi una società progredita (che guarda sempre avanti rimanendo, così, incastrata in un eterno presente), una società “smart” (ovvero competitiva e cognitivamente sempre sveglia), una società comoda, bella, quasi incolore e inodore e l’abbiamo fatto senza chiederci a cosa stessimo rinunciando. Come ogni progetto, anche il progetto del neoliberalismo -quello che secondo molti non avrebbe alternative- meriterebbe una riflessione e una valutazione delle conquiste e delle perdite, dei costi e dei benefici. In molti stiamo finalmente capendo che è arrivata l’ora dei conti.

Sul lungo listino delle cose perse ce n’è una più importante delle altre e dalla quale scendono a catena tutti gli altri danni collaterali: la salute. E non la salute intesa come insieme di meccanismi fisiologici di un individuo ma intesa come stato sereno del corpo, della mente e dello spirito. Salute intesa soprattutto come sistema che governa il corpo collettivo della società, ovvero la capacità di vederci come un’unica cosa, uno e tanti. La cosa drammatica è che il capitalismo è riuscito addirittura a illuderci e farci credere di vivere in un sistema sano, anzi, il migliore immaginabile. Sono in sovraccarico da lavoro, ho crisi di pianto, non riesco a pensare alle mie relazioni e fare cose belle perché sono perennemente impegnata in cose di lavoro e a fare conti per arrivare a fine mese ma, dopotutto, sto bene. Questo è che sentiamo. Essere vivi biologicamente ma avere dei sogni morti non significa essere in vita. Ricordiamocelo, è il coraggio l’unico elemento che ci fa respirare davvero.

A supporto della tesi per cui viviamo in una società malata ci sono numerosissimi dati. Uno tra i tanti è che la depressione è, secondo l’OMS, la prima causa di disabilità a livello globale, una persona su cinque al mondo, infatti, è depressa. Sarà così perché siamo davvero più depressi o perché sono semplicemente aumentati gli strumenti che abbiamo a disposizione per fare questi calcoli? La risposta a domande del genere è sempre molto difficile ma, in questo caso, basterebbe collegare più dati per avere un disegno completo dello stato di salute dell’umanità. Per esempio, tra il 5 e il 17% della popolazione mondiale soffre di dislessia e che in paesi come l’Italia i disturbi dell’apprendimento tra gli studenti sono quintuplicati dal 2010 al 2019 (da 0,9 al 4,9%*). Lo attestano gli ultimi dati del MIUR, secondo i quali sempre meno studenti, bambini e adolescenti, sono in grado di leggere, scrivere e operare con i numeri in modo fluido e corretto. Altro dato allarmante è il sempre maggiore numero d’individui al mondo che soffrono di analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di comprendere e usare le informazioni che si incontrano nella vita di tutti i giorni, a causa delle non sufficienti abilità nella lettura e comprensione del testo e nel calcolo (in Italia gli analfabeti funzionali sono il 27,7% della popolazione).

Per non parlare dei disturbi psicologici e dell’alimentazione. Fisher fa addirittura una correlazione tra l’aumento di casi di schizofrenia con i progressi e i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi decenni. In un mondo sempre più veloce e “schizzato” (nel senso di “abbozzato, “approssimativo”) appare chiaro come la destrutturazione totale di ogni categoria sociale e la fluidità del sapere si rispecchi nel nostro sistema cognitivo. Tuttavia, come leggiamo in “Realismo capitalista”, “Il modo in cui gli studenti non riescono a mettere in relazione il loro attuale deficit d’attenzione coi fallimenti che verranno, la loro inettitudine nel tradurre il tempo in una narrativa coerente, è sintomo di qualcosa di più che la mera demotivazione”.

Infatti, basterebbe guardare il mondo con lenti più attente e critiche per capire che i nostri studenti non sono semplicemente svogliati o “demotivati” ma sono prove viventi dello sfibramento cognitivo di cui siamo tutti vittime. La scienza “[…] Nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale” afferma sempre il teorico inglese. “Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di una individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci)”

Così, siamo tutti un po’ malati e non lo sappiamo. Ma cosa accadrebbe se cominciassimo a dircelo ad alta voce? Forse ammettendo di essere malati anche senza esserne convinti ci spingerebbe a trovare una soluzione.

Siamo malati di tecnologia, di sfruttamento, di lavoro sottopagato, di emarginazione dalla società, siamo malati di non riposo e di non pensiero. Se la comunicazione è diventata merce di scambio ed è usata dal capitalismo per divorarci perché, allora, non ce ne appropriamo per ridonarle il suo vecchio potere magico e rivoluzionario, quello del cambiamento? Parlare di “schwa” (ə), ovvero di un segno grafico che non esiste neanche nel nostro alfabeto fonetico, significa fare “metalinguaggio”, ovvero parlare del parlare e così facendo alimentiamo solo algoritmi e perpetuiamo il sistema che del flusso deregolato d’informazioni si nutre.

A questo punto so che devo fare una precisazione perché quando si parla della Parola, oggi, si cammina sempre su un terreno scivoloso e ci si abbarbica su forti bellicosi. Sì, conosco il potere creativo della lingua e so quanto questa sia importante per far sì che cambino le menti e le politiche. La mia non è una critica né tanto meno una sterile polemica o un tentativo di delegittimazione della causa LGBTQ+, tutt’altro, il mio ragionamento vuole essere un arricchimento al dibattito, uno spunto di riflessione. Lavorando con la lingua e nelle scuole (sono insegnante d’inglese) mi imbatto costantemente con diverse minoranze, tra queste ce n’è una che, in verità, minoranza non è perché, come detto prima, si tratta di un disturbo in continuo aumento. Chi soffre di disturbi dell’apprendimento ha serie difficoltà a comprendere il segno della “schwa” o altri segni non appartenenti all’alfabeto latino. Il segno “ə”, come anche “ε”, sono segni utilizzati da chi intende essere inclusivo con i membri della comunità LGBTQ+ ma sono davvero inclusivi se ostacolano la compresnione ad altri individui? Non stanno escludendo una fetta della società? Tra l’altro, secondo i dati dell’OCSE le persone che non si definiscono “eterosessuali” costituiscono in media il 2% in ogni paese (in Italia l’1,6%). Se l’inclusione fosse davvero una questione numerica o di lettere allora dovremmo parlare con numeri e lettere alla mano. Purtroppo, però, non è così. L’inclusione è una faccenda molto più profonda, è incarnata nei fatti e nelle azioni concrete e finché parleremo di lotte “metalinguistiche” spacciandole per lotte materiali non faremo altro che illudere noi e chi dopo di noi verrà.

Mentre cibiamo i nostri ego affranti con questa illusione -va tutto bene, sono felice e mi manca solo la desinenza giusta- tutto intorno si frantuma. La cultura, la capacità cognitiva di capirsi e capire il mondo circostante, la scaltrezza e la furbizia dell’individuare il vero nemico -il Capitale. Siamo anestetizzati e ci piace danzare sulla falsa consapevolezza che ci rimanga ancora poco o nulla da conquistare. Non sappiamo stabilire l’urgenza politica, è il razzismo, la povertà, il patriarcato, l’omotransfobia? Una volta, come scrive Angela Davis in “Donne, razza e classe”, era combattere il sistema schiavistico e per questo le donne erano spronate a partecipare a quella lotta “ben sapendo che la loro stessa oppressione era alimentata e perpetuata dalla permanenza del sistema schiavistico”. All’epoca, quindi, si era ben consapevoli che tutte le lotte fossero inseparabili e che non ci fosse una più importante dell’altra. Oggi, invece? Siamo proprio sicuri di star trasmettendo questa intersezionalità alle nuove generazioni? Oppure il sistema liberale ha divorato anche le lotte contro di esso e ha reso così estetiche e accattivanti alcune lotte a discapito di altre per tenerci tutti buoni e domati?

Il femminismo, il razzismo e la lotta contro l’omotransfobia sono anticapitaliste?

L’unica lotta che sembra creare una massa critica intorno al tema del capitalismo è quella dell’ambientalismo.

D’altronde il pianeta è vivo e, come noi, sta mutando sotto gli effetti delle nostre azioni sciagurate. Fisher parlava di “ripoliticizzare la malattia mentale”, finora sembra si stiano ripoliticizzando solo i disastri ambientali. Se questo sia un buon segno oppure no non so dirlo ma, in ogni caso, la strada da fare è ancora tanta e faticosa.

Agli studenti, ai nostri figli, ai colleghi e agli amici dovremmo solo insegnare a tornare di nuovo alle azioni. Di lasciar perdere le sterili digitazioni su queste tastiere e di cominciare a leggere questi miliardi di blog e testate (come questa che state leggendo) a condizione che poi si avrà il coraggio di trasformare l’ideologia incastrata tra queste lettere in azioni tangibili. Rendiamo queste parole e quelle dei libri, dei tanti libri che si dovrebbero leggere, in movimento. Tra l’altro, è solo muovendosi che si guarisce e si sta meglio, stare fermi equivale a essere corpi infermi.

Se il capitalismo non ci dà tregua, invadendo anche i nostri sogni, allora scuotiamoci, liberiamocene ferocemente politicizzando la malattia mentale e il nostro scontento collettivo. Le parole sono importanti, allora chiamiamo le cose con il giusto nome. Diamo ai disturbi del sonno, ai disturbi da deficit dell’attenzione, ai disturbi dell’attenzione, alla schizofrenia, alla depressione, ai disturbi dell’apprendimento e all’afflizione un unico nome: capitalismo.

La rabbia tornerà a infuocarci perché la tristezza di oggi non è egotica, non è dentro di noi, ma è fuori ed è condivisa, guardiamoci l’un l’altro, diamoci la mano e usciamo da queste sabbie mobili. L’incubo del capitalismo finirà e noi ci sveglieremo. Buongiorno, mondo.

TAG: capitalismo, neoliberalismo, politica
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