Come ho sempre sostenuto, la creazione dell’Unione europea è stata una mossa intelligente evidenziando la capacità di avere al centro del mondo geopolitico una forza socio-economica compatta. Questo era quello che credevo o come c’è l’hanno fatta intendere. Ovviamente non è così, anzi è più una questione relegata ai parametri NATO. Eppure, nonostante nessun partito auspichi l’uscita dall’euro e tutti sembrino intenzionati a modificare l’Unione europea dall’interno, le divergenze di veduta sul ruolo dell’Europa rimangono evidenti.
Sostanzialmente punto il dito sull’Unione europea per aver tradito l’impegno preso con i cittadini: nessuna attenzione al benessere socio-economico delle persone ma solo alla stabilità del sistema finanziario, vincoli di bilancio troppo stringenti che impediscono politiche fiscali espansive e una Banca centrale europea ostile a eliminare lo spread tra i rendimenti dei titoli pubblici dei diversi Paesi dell’Eurozona.
Nei primi vent’anni dell’euro, la crescita economica dell’Eurozona (ad eccezione di Grecia, Italia e Portogallo) è stata simile a quella di Stati Uniti e Giappone. Gli investimenti pubblici italiani sono stati superiori a quelli tedeschi, ma la composizione degli investimenti totali (pubblici e privati) è stata diversa: R&S e tecnologia in Germania, settori tradizionali in Italia.
Tuttavia l’Europa merita delle critiche. Ad esempio, l’introduzione dell’euro ha favorito soprattutto la Germania, che – riformato il mercato del lavoro, si è avvantaggiata sia verso i Paesi fuori l’Eurozona, grazie a una moneta non eccessivamente forte, sia verso quei Paesi dell’Eurozona (Francia e Italia), che usavano le svalutazioni per riguadagnare competitività. Inoltre la recente crisi economica e finanziaria ha colpito soprattutto i Paesi del Sud Europa, privi di strumenti di politica monetaria e con poche leve di politica fiscale. E l’Europa non ha saputo rispondere con rapidità ed efficacia a questa crisi per mancanza di strumenti adeguati.
Poi la guerra in Ucraina. Gli interventi di pace da parte dell’UE e dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sono stati poco incisivi, soprattutto dopo che gli USA hanno dato l’ordine di prendere le distanze dalla Russia; prerogativa in quanto al servizio della NATO. Di conseguenza, agli occhi del mondo questa Unione europea è apparsa debole e incapace di reagire in totale autonomia. Praticamente una sorta di autoisolamento di politica internazionale, mandando a farsi fottere la globalizzazione compresi i paesi “nemici” della Grande Mela: Cina, India, Russia e Stati Arabi.
E’ che dire sul piano industriale Net zero act che prevede un quadro di misure per rafforzare l’ecosistema europeo di fabbricazione di prodotti tecnologici a zero emissioni (Net Zero Industry Act). Anche qui la presidente Ursula von der Leyen si è tanto dimenata, rispondendo all’Inflation reduction act, il provvedimento USA da oltre 350 miliardi di euro per sostenere l’industria ‘green’ americana, con un contro-piano di sussidi animato da obiettivi spudoratamente protezionistici. In sostanza aveva rappresentato un ritorno alla pianificazione industriale degli anni ’60, come il Plan Calcul, un programma fallito, chiuso nel 1975, che aveva cercato di promuovere l’industria informatica nazionale francese tra i crescenti timori di un’eccessiva dipendenza dagli USA.
Pur essendo un sostenitore dell’Unione europea, in termini pratici e non politici, credo fortemente che le posizioni degli Stati membri sia diversamente proporzionata allo stato delle procedure. Ad esempio, se leggo i trattati di Roma qualche domanda me la pongo sul futuro dell’Unione Europea. Che questa UE, formata male e sofferente, riveste un ruolo di comparsa al centro del mondo sotto la pressione dello Zio Sam, lo dimostra il rapporto con la Cina. In un recente discorso a Bruxelles la signora von der Leyen aveva accennato di rivedere le relazioni euro-cinesi, preannunciando strumenti che nel caso possano vietare investimenti europei nel paese. Praticamente una suicidio commerciale di carattere mondiale.
Al termine delle mie umili considerazioni c’è un altro aspetto che attanaglia l’UE, il più importante: l’immigrazione. L’aumento del 64% degli attraversamenti irregolari delle frontiere (circa 330mila nel 2022) e del 46% delle domande di asilo (quasi 924mila) sembrano preoccupare le capitali europee. In più ci sono i dati, ai massimi storici, delle domande di asilo presentate da cittadini di Paesi tradizionalmente considerati “sicuri”, come Turchia, Bangladesh, Marocco, Georgia, Egitto o Perù.
Le strategie dei vari Stati per contrastare il fenomeno non sembrano in realtà contemplare grosse innovazioni. L’Austria chiede di utilizzare fondi comunitari per finanziare un muro lungo il confine tra Bulgaria e Turchia. L’Italia spinge per un codice di condotta europeo che regoli l’attività delle navi di soccorso delle Ong nel Mediterraneo. La Danimarca cerca sostegno per istituire centri di accoglienza per richiedenti asilo al di fuori del territorio europeo.
Le soluzioni? Se gli Stati invece di limitarsi semplicemente a rifiutare ogni programma che prevede il trasferimento di migranti in tutta l’Unione, dovrebbero prendere in considerazione Pact on Migration il quale propone un meccanismo di “solidarietà effettiva”, che si attiverebbe nel caso un Paese dell’UE si trovasse “sotto pressione o a rischio di esserlo” a causa di un alto numero di arrivi di migranti. Gli Stati avrebbero allora tre possibilità a disposizione: accettare il ricollocamento sul proprio territorio di una quota di richiedenti asilo, prendere in carico il rimpatrio di una quota di persone a cui è stato negato l’asilo, o finanziare una serie di “misure operative” nel Paese sotto pressione, come centri di accoglienza e mezzi di trasporto.