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NIENT’ALTRO CHE LO STOMACO

| 8 Maggio 2023 | NOTIZIE

“Se sono diventato un martire, non permettete agli occupanti di sezionare il mio corpo. Seppellitemi accanto a mio padre e sulla lapide scrivete: qui giace il povero Khader Adnan.”

“Per quanto mi riguarda, possono scioperare per un giorno, un mese, fino alla morte”.

Tzahi Hanegbi, ex ministro della Sicurezza interna israeliano

“Khader Adnan, che è appena morto durante il suo quarto mese di sciopero della fame in una prigione israeliana, era un fornaio. Era anche un organizzatore, e una stella polare politica, ma faceva il panettiere sul serio: come lavoro, come mestiere, come etica. Scherzava: avevo fame per cuocere in libertà.” Al-fatiha

Khader Adnan è morto all’ottantaseiesimo giorno del suo sciopero della fame contro le condizioni disumane della prigionia nelle carceri militari illegali della colonia d’insediamento sionista.

Entrato nel gulag israeliano il 5 Febbraio, giorno del suo tredicesimo arresto, è stato ammazzato il 2 Maggio al culmine del suo quinto sciopero della fame.

Padre di 9 figli, è stato ammazzato senza capo d’accusa né processo dal “servizio carcerario” sionista che, volendolo morto, lo ha privato di qualsiasi tipo di assistenza e diritto umano (era detenuto in isolamento e gli venivano negate le visite da parte della sua famiglia).

Adnan ha trascorso in totale 8 anni in carcere di cui 9 in detenzione amministrativa.

Nonostante l’evidente e drammatico deterioramento delle sue condizioni di salute, a marzo, il tribunale militare di Salem ha esteso due volte l’ordine di detenzione di Khader per consentire agli occupanti sionisti di inventare capi d’accusa contro di lui sulla base di testimonianze passate.

A nulla sono valsi i tentativi della moglie, Randa Mousa, di salvargli la vita: non la denuncia secondo cui il “tribunale” militare israeliano aveva respinto l’appello per rilasciare il marito su cauzione (per poi fissargli un’udienza beffarda per il 10 maggio), non i molteplici avvisi delle condizioni di detenzione, come per esempio il fatto che non venisse trasferito in un ospedale civile visto che si rifiutava di assumere qualsiasi tipo di fluido o farmaco per via endovenosa e di sottoporsi a test medici e aveva quindi impellente necessità di monitoraggio continuo.

A sorvegliarlo h24 erano invece i suoi aguzzini, tramite le telecamere di sicurezza della clinica del carcere militare illegale di Ramla, che l’hanno lasciato morire senza muovere un dito.

Un omicidio sadico volontario!

Per chi stesse ancora ripetendo come un automa lo slogan “Due Stati per Due Popoli”, questa è la riprova che la colonia d’insediamento sionista non vuole uno Stato palestinese: non lo vuole forte, non lo vuole vitale e soprattutto non lo vuole con dei leader giusti e amati.

Se ce ne sono devono sparire: vanno fatti fuori.

A spingere questo pensiero è la narrativa sionista dei media che, quando devono riportare la notizia dei martiri ammazzati dalla colonia d’insediamento sionista, gli cuciono addosso il vestito del terrorista pericoloso e retrogrado in modo da portare i lettori, privi di cultura e spirito critico, a sentirsi al sicuro nella loro ignoranza.

Adesso, immaginate che a venire ucciso non fosse un leader palestinese.

Immaginate al suo posto un alto dirigente di un qualsiasi partito europeo lasciato morire di stenti in cella.

Le prime pagine e gli speciali si sprecherebbero, i politici scriverebbero il classico tweet di circostanza per fingere di essere umani e i cantanti del Concertone del primo maggio direbbero frasi a effetto per vendere due dischi in più e far alzare il cachet. Nessuno dei sopra citati riporta che ad oggi i prigionieri politici palestinesi nelle carceri militari illegali sioniste sono 4.900 (30 donne e 160 minori).

Di questi, 1016 (il numero più alto negli ultimi 20 anni) sono in detenzione amministrativa, tra cui due giovani donne, 554 prigionieri politici stanno scontando il carcere a vita (il caso più noto è quello di Abdullah Al-Barghouti, 67 ergastoli).

Dall’inizio dell’anno in corso (2023) sono stati arrestati quasi 3000 palestinesi e 350 di questi sono minori.

700 detenuti sono ammalati, tra cui 24 affetti da cancro a cui viene negato l’accesso a qualsiasi tipo di cura.

Ci sono anche 19 giornalisti e professionisti del settore dei media detenuti in condizioni disumane (4 di loro in detenzione amministrativa), cosa, però, che non ha mai indignato nessun collega del Belpaese visto che “Israele” non è né Russia né Cina, ma lo stesso persegue i giornalisti con l’obiettivo di ostacolare la stampa e di soffocare la libertà dei media.

DETENZIONE AMMINISTRATIVA ILLEGALE E TORTURA NELLE CARCERI SIONISTE

La detenzione amministrativa è una forma speciale di custodia cautelare, introdotta dalle autorità coloniali britanniche e traslata nell’ordinamento israeliano: prevede il carcere senza accuse ufficiali né processo, sulla base di rapporti confidenziali dell’esercito o dei servizi segreti (a cui i legali dell’accusato non hanno accesso) che identificano una persona come possibile minaccia allo “Stato”.

L’ordine di detenzione amministrativa israeliana dura sei mesi ma è rinnovabile senza limiti di tempo: una aperta violazione del diritto internazionale che lo prevede solo in casi eccezionali.

I prigionieri che stanno scontando una lunga pena o un ergastolo nelle carceri della colonia sionista sono persone che secondo lo “Stato” occupante rientrano nella categoria di “security prisoners”: prigionieri che sono stati arrestati e condannati in quanto sospettati di aver commesso un crimine, che per sua natura è definibile come una violazione della sicurezza della colonia d’insediamento sionista o la cui matrice è nazionalista.

Quasi tutti i prigionieri che rientrano in questa categoria sono palestinesi, basta infatti essere un nativo per essere potenzialmente considerato come una minaccia alla sicurezza.

Secondo questi principi disumani e suprematisti, i palestinesi vengono imprigionati e inclusi in un’unica categoria che diventa il modo per giustificare continue brutalità: vengono regolarmente sottoposti a tortura fisica e psicologica, le visite dei familiari e degli avvocati sono proibite o fortemente limitate e non c’è assistenza medica.

C’è chi però in queste condizioni, nonostante la negazione delle visite coniugali siano, riesce a diventare padre.

https://www.ledijournals.com/ojs/index.php/antropologia/article/view/2089/1842

La colonia d’insediamento sionista dovrebbe garantire sicurezza e diritti civili dei prigionieri in quanto potenza occupante così come da diritto internazionale, che quindi viola dal momento che pratica abusi terrificanti.

Durante gli interrogatori e le prigionie, infatti, i sionisti molestano i detenuti e impiegano diverse tecniche di tortura psicologica e fisica.

In alcuni casi, gli interrogatori sionisti hanno costretto i detenuti a guardare i loro amici o familiari sottoposti a torture e minacce; in altri casi, sono state fatte ascoltare registrazioni delle loro urla e grida di dolore o gli è stato detto che i familiari stavano soffrendo.

Le pratiche di tortura dei prigionieri Palestinesi vengono addirittura esportate, come testimoniato nel suo libro di memorie da un ex addetto americano agli interrogatori in Iraq nella prigione di Abu Ghraib. Ha raccontato come l’esercito israeliano abbia addestrato il personale americano all’utilizzo di tecniche di interrogatori e torture, come la nota “sedia palestinese”, in cui il prigioniero è costretto a sporgersi su una sedia con le mani legate ai piedi.

In questo tweet di Addameer sono visionabili le illustrazioni di altre indicibili torture ai danni dei nativi Palestinesi.

https://twitter.com/Addameer/status/1209079183592308736?s=20

Questi trattamenti diventano particolarmente efferati e subdoli quando i prigionieri sono i bambini palestinesi (sì, bambini): possono essere sottoposti a estenuanti interrogatori di ore (normalmente senza la presenza di un avvocato o un genitore, cosa prevista dalla legge militare israeliana), in cui li si violenta psicologicamente costringendoli e inducendoli a confessare crimini mai avvenuti (o di cui mai stati testimoni) e a torture fisiche.

Com’è possibile che “Israele” detenga dei bambini?

La maggiore età per i Palestinesi è fissata a 16 anni (e non a 18 come per gli israeliani) e i minori di 14 anni possono essere condannati a pena detentiva, non ammessa se israeliani.

Questo è quello che ha deciso “Israele” per i bambini Palestinesi dei “territori Palestinesi occupati”.

Non solo occupa illegalmente ma illegalmente decide quando poterli torturare e rubare alla loro infanzia.

FRONTE UNITARIO DI LOTTA DEI PRIGIONIERI PALESTINESI PER LA LIBERTÀ

Lo scopo di tutte le tattiche disumane e disumanizzanti di “Israele” è quello di costringere i palestinesi, sia all’interno che all’esterno del carcere, a vivere in un perenne stato di paura e quindi di sottomissione, sopprimendo la loro volontà di sfidare l’occupazione israeliana, il colonialismo dei coloni e tutte le ingiustizie che ne derivano.

I leader palestinesi, che mai si lasciano intimorire, vengono incarcerati e uccisi, in modo che si sgretoli l’unione costruita tra i nativi e che chi sta fuori perda dei punti fermi e fondamentali della Resistenza.

Le carceri sioniste sono infatti per “Israele” un laboratorio per testare le proprie politiche e i propri approcci nei confronti dei palestinesi, applicando successivamente tattiche correlate nel tentativo di imporre conformismo o di estrarre altre ramificazioni per il resto della società palestinese e della diaspora.

Lo scopo è quello di disimpegnare e frammentare il movimento dei prigionieri attraverso una serie di metodi quali isolamento, trasferimenti randomizzati dei prigionieri e così via.

Si mira anche a disarmare il pensatore politico, creando una condizione per cui il detenuto costretto in cella si concentra sull’intrattenimento, il piacere o il tempo libero, piuttosto che parlare o agitarsi contro le ingiustizie che accadono all’interno o all’esterno.

È probabile che un detenuto venga privato dei libri (soprattutto politici) e della comunicazione con gli altri detenuti o con le persone all’esterno. Potrà invece avere accesso a un televisore con una serie di spettacoli teatrali e forse a uno o due corsi dell'”Università aperta israeliana”, spesso poi vietati come forma di punizione e coercizione per qualsiasi mobilitazione dei detenuti.

Come se non bastasse, tutto ciò viene portato avanti con la complicità e connivenza dell’Autorità Nazionale Palestinese che, dietro al cosiddetto “coordinamento sulla sicurezza”, emette ordini di arresto per i membri della Resistenza che vengono così consegnati nelle mani dei sionisti: un tradimento vero e proprio.

Nonostante questo livello repressivo, negli anni, i prigionieri hanno saputo trasformare i gulag sionisti in cui sono rinchiusi in un altro fronte unitario di lotta, sebbene appartenenti a diverse organizzazioni politiche.

Molti palestinesi detenuti in regime di detenzione amministrativa o imprigionati con accuse inventate, fasulle o falsificate, vengono politicizzati all’interno di queste carceri, se non erano già coinvolti nel movimento.

In genere, sono i prigionieri più anziani, istruiti ed esperti a educare i detenuti più giovani, in un’esperienza spesso definita “scuola di rivoluzione”.

Di conseguenza, gli arresti israeliani possono dare origine a una generazione politicamente impegnata con un livello di conoscenza ed esperienza più profondo. Esempi di lotta dall’interno delle carceri sioniste sono gli scioperi della fame unitari contro la detenzione amministrativa E le mobilitazioni contro la “doppia punizione” che viene inflitta dall’amministrazione carceraria sionista ai prigionieri appartenenti ai maggiori gruppi della Resistenza.

Il tentativo dei carcerieri è quello da un lato di attaccare le conquiste acquisite dai prigionieri attraverso la lotta e dall’altro di dividerli differenziandone il trattamento. Infatti, contro alcuni viene portato avanti un trattamento ulteriormente vessatorio che si concretizza nel divieto di avere visite, nell’impedire l’accesso alla mensa, nella privazione dell’ora d’aria, nel sequestro di tutti i dispositivi elettronici e nella proibizione della maggior parte dei canali televisivi.

Possono inoltre subire cicliche retate nelle loro celle con violenze fisiche e danneggiamento dei loro averi, in particolare dei generi alimentari, costringendo i loro familiari a ulteriori spese.

Storicamente i martiri ed i prigionieri rappresentano il seme di ogni rivoluzione, di ogni lotta di liberazione.

La loro libertà rappresenta uno dei punti cardine su cui le forze della Resistenza si uniscono.

Per questo motivo, la lotta per la liberazione della Palestina non sarà mai potente e efficace se non si mettono sopra tutti i prigionieri politici palestinesi.

Al di fuori della Palestina, raramente si vedono delegazioni di persone che aspettano fuori dai cancelli delle carceri per festeggiare il rilascio di uno di loro. Ma questa pratica è quasi universale nella società palestinese.

L’accoglienza si applica sia a un leader di alto profilo che a qualcuno con un profilo pubblico scarso o nullo o con un riconoscimento minimo.

Molti movimenti di liberazione nazionale non hanno prestato attenzione ai loro prigionieri. Una volta che le persone venivano arrestate, c’era una forte possibilità che non venissero più viste.

Il movimento palestinese, tuttavia, adotta un approccio che sfida questa situazione.

I prigionieri sono una parte cruciale della società palestinese e il popolo palestinese nel suo complesso giura di ottenere la loro libertà.

LA NOSTRA SOLIDARIETÀ A CHI SOFFRE CON CORPO E SPIRITO

Ovviamente, data la mostruosità della vita in prigione, la libertà va celebrata. Tuttavia, l’esperienza della prigionia è anche un viaggio che i prigionieri palestinesi affrontano e che certamente li farà uscire più forti di quanto non fossero prima di entrare, se non ne usciranno distrutti.

Sostenere i prigionieri palestinesi non solo porta maggiore chiarezza in relazione alle politiche e alla progressione di “Israele” come potenza occupante, ma affretta anche la liberazione del popolo e della terra palestinese.

Liberazione che arriverà solo quando i prigionieri verranno liberati dalla realtà fisica della prigione, che chi è fuori proietta a livello mentale. Se loro guidano la carica della resistenza dall’interno sta a chi è fuori sfidare la mafia sionista sostenendoli dall’esterno. Loro, paradossalmente, nelle galere illegali sioniste sono liberi, al contrario tutti i palestinesi che all’esterno sono prigionieri dei compromessi accettati e subiti per non morire o essere carcerati.

Il dovere di tutte e tutti deve essere quindi quello di sostenerli, senza esitazioni.

Privati della loro libertà mettono a disposizione i loro corpi per continuare la lotta; noi possiamo e dobbiamo mettere a disposizione la nostra solidarietà per sostenerli.

Se i prigionieri palestinesi sono in prima linea contro l’occupante perché non possiamo farlo noi qui fuori? La loro sofferenza è la nostra!

Non posso che essere dalla parte del popolo palestinese e di tutti i popoli che resistono all’imperialismo perché la loro barricata, fuori e dentro le galere, è la mia, è di tutti quelli che come me lottano al fianco degli sfruttati e degli oppressi contro il suprematismo e il colonialismo disumanizzante. A tutte e tutti i palestinesi che parlano al passato della Palestina, che organizzano festival e incontri con la prospettiva di emanciparsi o arricchirsi vivendo a testa bassa in mezzo agli occupanti e a chi li sostiene (su tutti le comunità ebraiche che dettano legge e incutono un insensato terrore), che pensano che la liberazione passi solo attraverso i social, a loro vorrei chiedere: se ci sono palestinesi che possono resistere a sevizie, torture e alla privazione del cibo fino al martirio, se tutto questo lo fanno per i loro diritti e per i vostri, cosa vi impedisce di resistere a tutto tondo?

Chi vi impedisce di lottare per liberarvi della zavorra borghese e neoliberista che vi opprime e caratterizza?

Sono loro in carcere i veri prigionieri o noi che da fuori non facciamo mai abbastanza?

Khader Adnan aveva 45 anni

Lascia moglie e nove figli

Morto assassinato dai terroristi sionisti

Ha lottato fino all’ultimo respiro per la sua e la nostra libertà

Khader è il 234° prigioniero palestinese morto ammazzato nelle carceri illegali sioniste

TAG: Dal Fiume...Al Mare, Gabriele Rubini, Palestina, Rubio
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