
Nicolò Dal Fabbro, veneziano classe 1996, è dottorando in Scienze e Tecnologie dell’Informazione presso l’Università degli Studi di Padova. Attualmente vive a Filadelfia, in Pennsylvania, ed è ricercatore e collaboratore per l’università locale, la University of Pennsylvania.
Prima che diventasse uno studioso a tutti gli effetti, io e Nicolò siamo stati compagni di banco per circa un anno al Liceo Classico Marco Foscarini di Venezia. È Nicolò che mi ha iniziato alla letteratura, porgendomi tra le mani, nell’inverno del 2014, Fight Club di Chuck Palahniuk.
Oltre a leggere, ci piaceva imitare le persone e guardare i tramonti. Quando mi disse, terminato il Liceo, che sarebbe finito a studiare materie scientifiche, inizialmente mi venne un colpo. Era una delle menti più poetiche che avessi mai incontrato e per me il suo destino naturale era scrivere un romanzo. Ero certo, però, che sarebbe riuscito in tutto quello che avrebbe fatto…
Benvenuto a “Sulla mia generazione”, Nicolò. Ti andrebbe di raccontarci il tuo percorso accademico e dirci che cosa ti ha spinto a studiare in un Dottorato di ricerca?
Ciao Giacomo, certo. Al termine delle superiori, dopo qualche momento di esitazione causato anche dal mio amore per le lettere, mi sono finalmente deciso e sono andato a studiare Ingegneria dell’Informazione presso l’Università di Padova. È stata la scelta migliore che potessi fare. Mi sono trovato benissimo e ho conosciuto molte persone. Sono rimasto nello stesso ateneo anche per la Magistrale e mi sono iscritto a Ingegneria delle Telecomunicazioni, ottenendo la Laurea nel 2020. Questa la prima parte del mio cammino accademico.
Una cosa che ricordo e che mi ha accompagnato in tutti questi anni è che ero sempre emozionato quando iniziava un corso nuovo. Se i miei compagni erano scettici e non vedevano l’ora di andarsene, io desideravo restare in classe con i professori perché mi appassionava l’idea di penetrare e conoscere a fondo una materia. Il Dottorato, a mio avviso, è il naturale percorso per chi la pensa in questi termini.
Ho quindi scritto la Tesi e il professore che mi seguiva mi ha spinto in questa direzione. L’argomento del lavoro era il Wi-Fi sensing, ovvero il monitoraggio di ambienti interni tramite l’analisi di segnali wireless prodotti dalla tecnologia Wi-Fi. Poniamo di essere in una stanza dove c’è un modem Wi-Fi che comunica con un dispositivo, ok? Quando una persona fa un qualsiasi movimento genera una fluttuazione nel segnale wireless. Questa fluttuazione può essere analizzata al ricevitore e permette di riconoscere la presenza o meno di un essere umano nella stanza. Nello studio non solo abbiamo rilevato questa fluttuazione, ma siamo anche andati a distinguere la presenza di una persona che cammina rispetto a quella di chi sta seduto. L’operazione si chiama “riconoscimento di attività”. Per sviluppare algoritmi su questo riconoscimento tramite Wi-Fi abbiamo studiato tantissimo e raccolto un dataset enorme.
È stato difficile ma ne è valsa la pena, perché su questo dataset, insieme ad altri quattro colleghi abbiamo vinto nel 2022 un Premio Internazionale proveniente direttamente dalla IEEE (Istitute of Electrical and Electronical Engineers), un premio sui dataset caricati da noi ricercatori all’interno del loro portale (https://ieee-dataport.org/data-upload-contest). Grazie all’alto numero di visualizzazioni e alla valutazione positiva del gruppo di giuria siamo riusciti a vincere. Una soddisfazione davvero grande.
Su questo progetto sto continuando a fare ricerca. È un lavoro impegnativo e ancora lungo, ma lo è stato soprattutto all’inizio, quando era difficile farsi conoscere dalla comunità e pubblicare i propri studi. Alla fine, però, i meriti e le fatiche ci sono stati riconosciuti. In ogni caso non mi fermo qui. Il percorso è ancora ricco di sorprese e nuove scoperte.
Ora come ora, poi, sono impegnato anche in altri fronti. Ho due pubblicazioni su riviste internazionali, un pre-print sotto revisione e a fine maggio presenterò parte della mia ricerca in una delle più importanti conferenze internazionali di Ingegneria delle Telecomunicazioni, la IEEE International Conference on Communications che si svolgerà a Roma.
Ci sono altri progetti su cui stai lavorando?
Sì, ce ne sono diversi. Al momento il mio progetto principale è risolvere problemi legati ai data-driven algoritms (algoritmi basati sui dati), a cui spesso ci si riferisce come a tecniche di apprendimento automatico. Negli ultimi anni è uno degli argomenti più studiati. Nel mio lavoro analizziamo la progettazione di questi algoritmi quando i dati sono distribuiti all’interno di una rete di comunicazione. È uno scenario di grande interesse.
In campo medico, ad esempio, ci sono grandi insiemi di dati legati ai pazienti di ospedale, e potrebbe essere utilissimo utilizzarli per la cura delle persone. I dati, però, sono dislocati e per giunta di proprietà di enti diversi, sia pubblici che privati. Alcune delle tecniche che studiamo permettono di sviluppare questi algoritmi senza dover mettere i dati sotto un unico insieme, così da poter utilizzare dati potenzialmente sensibili senza che siano intrusivi rispetto alla privacy. Al progetto sto lavorando con il mio supervisore, che è un professore universitario, e anche con altri professori, ricercatori e dottorandi di Padova ed altri atenei.
In un altro progetto su cui stiamo preparando nuovi studi, abbiamo sviluppato tecniche per reti cellulari (wireless) di quinta generazione (5G). La ricerca consiste nello sviluppare soluzioni per rendere le reti wireless del futuro più efficienti, ad esempio per quanto riguarda la gestione delle risorse (come l’energia o le bande di frequenza) all’interno di sistemi wireless.
Infine, sempre nel campo di algoritmi basati sui dati e tecniche di apprendimento automatico nel caso di dati decentralizzati, dove la comunicazione tra entità di una rete diventa l’elemento centrale, sto lavorando proprio adesso a un progetto con l’Università della Pennsylvania, qui a Philadelphia.
Come mai hai deciso di andare a Filadelfia? Come trovi l’ambiente di ricerca americano rispetto a quello italiano?
La collaborazione con Filadelfia nasce da un interesse che l’Università di Padova e quella americana hanno mostrato per le stesse tematiche, e ha preso vita in una conferenza online durante il primo periodo del Covid. Un ricercatore di Filadelfia ha fatto una presentazione su argomenti correlati a quelli su cui stavamo lavorando e noi li abbiamo contattati. Padova ha detto che poteva mandarmi in America e nel settembre dell’anno scorso sono partito. D’altronde mi occupavo proprio di quegli argomenti e le mie competenze in comunicazione e algoritmi distribuiti potevano essere utili anche in territorio americano.
Per quanto riguarda l’ambiente dell’Università della Pennsylvania è un ambiente decisamente internazionale. Le persone con cui lavoro provengono da tutte le parti del mondo. Oltre agli americani, nel Dipartimento ci sono indiani, tedeschi, sudamericani. E di solito sono tutti ricercatori ambiziosi. I due tedeschi e l’indiano con cui lavoro sono appena diventati professori in tre università americane, per dirti. Queste persone vedono negli Stati Uniti un luogo dove la ricerca paga sia in termini economici che di prestigio. Per questo hanno scelto di trasferirsi qui. Per me è più un’esplorazione, invece, un bisogno di vivere esperienze, perché il mio obiettivo, al momento, non è rimanere qui. Piuttosto, preferisco prendere quello che sto imparando negli States e portarlo in Italia o in Europa, perché l’Europa mi piace molto di più.
Quindi questo lo sto vivendo come un periodo di apprendimento e formazione, utile anche per vedere come funziona dall’interno la ricerca in America. Qui, ad esempio, rispetto all’Italia ci sono molti più fondi, più mezzi. Ci sono università che, oltre a una lunga tradizione di ricerca, hanno una fama internazionale con cui poche università in Italia possono competere. L’università in cui mi trovo ora, per esempio, che fa parte della Ivy League, è dove si è laureato Elon Musk.
Università della Pennsylvania
È un ambiente estremamente stimolante, dove in molti campi lavorano alcuni dei ricercatori più conosciuti al mondo. È bello incontrarli in corridoio, fa un certo effetto. Anche a Padova ce ne sono molti, però, e vorrei che questo fosse chiaro. La differenza è solo nel sistema e nelle possibilità, non nella qualità degli studiosi. Semplicemente, gli Stati Uniti sono l’impero dominante dal punto di vista militare ed economico e le università hanno un potere maggiore conseguente a questo. Non c’è in gioco solo la bravura ma anche la consapevolezza di disporre di mezzi superiori. Quello americano, inoltre, è un sistema quasi esclusivamente privato, diverso da quello italiano. Qui gli studenti sono quasi tutti figli di persone ricche e potenti.
In generale mi ritengo fortunatissimo ad avere stimoli di così alto spessore. Ho due supervisori a Padova che mi hanno dato fiducia e creduto in me. Ho lavorato duramente e adesso sento che i miei sforzi vengono ripagati.