
Quando Paolo è entrato nella mia vita ero un ragazzo di sedici anni che timidamente cercava di esplorare il mondo, e dico timidamente, cari lettori, non tanto perché fossi spaventato dalla vita, quanto perché, rispetto al reale desiderio che avevo di scuotere ed essere scosso, la triste verità dei fatti mi comunicava inascoltata che ad essere diversi sono davvero in pochi. La fiamma che mi ostinavo a vedere nelle altre persone molto spesso era soltanto il frutto delle mie giovani speranze. Continuavo ad aspettare. Continuavo a sperare. Poi un giorno, finalmente, ecco quello che cercavo.
“E quindi sei tu il famoso Paolo”, mi avvicino con fare curioso. “Sì, penso di sì. E tu sei Giacomo, eh? Beh, beato te che puoi portare i capelli lunghi”.
Cinque minuti dopo, pervasi da uno spirito tra il rock e l’ancestrale, eravamo al pianoforte a suonare, cantare e improvvisare canzoni come se non ci fosse nient’altro al mondo. Quest’abitudine, per fortuna, ci avrebbe unito negli anni con le sole interruzioni della distanza geografica. Anche se era strano vedere in divisa un ragazzo così, non ero più di tanto confuso.
Oggi Paolo è regista e video maker, libero e indipendente come il suo stato d’animo (è cioè un freelance), e mentre lo ascolto che mi parla di lavoro, cinema e passioni, non posso non pensare a quanta vita ci sia nel tutto…
Ciao, Paolo. Forse la domanda è un po’ banale, ma com’è nata la tua passione per il cinema?
Ciao, Giacomo. Beh, di preciso non lo so. Mi ricordo di averla sempre avuta, fin da bambino, ma non saprei dirti il momento esatto di rivelazione. Forse non c’è mai stato. Ricordo solo che mi piaceva evadere nei vari mondi, quindi di libri e film sono sempre stato un grande appassionato, e ancor di più quando si trattava di film tratti da libri, come nel caso del Signore degli Anelli. Sapevo a memoria tutte le battute. E così ho iniziato anch’ io, nel tempo libero, a creare alcuni corti. Avevo circa dodici anni ed ero appena tornato dall’America, dove ho vissuto per un anno. Lo facevo per gioco, all’inizio, prima con una mia cugina e poi da solo. Creavo parodie di serie Disney come Zack e Cody ed era tutto semplice e spontaneo. Mi piaceva ideare piccoli film, e davo sempre fastidio ad amici, fratelli e genitori per farli recitare nelle mie creazioni. Ero prepotente come un vero regista.
E da piccolo cosa creavi? Che cosa volevi comunicare?
Sinceramente penso di essere sempre stato tendente al commerciale, al pop. Mi piacciono le cose che piacciono un po’ a tutti, nello stile hollywoodiano. Da una parte azione, pistole, inseguimenti e amore, e dall’ altra il Fantasy con i boschi, gli eroi e i duelli con le spade. Poi nei fatti non volevo rappresentare questi soggetti, però mi piaceva l’idea di creare mondi in cui avere il pieno controllo di quello che succedeva. In pratica possedere una storia.
Per fare film usavo tutto ciò che avevo intorno. Se vedevo pistole e spade dei miei fratelli in giro per casa, ad esempio, la trama era Pistole contro Spade. Se c’era una cassapanca in soggiorno la inserivo in una storia. Le ambientazioni, poi, con l’immaginazione da bambino non erano mai un problema. Il mio salone, per dirti, diventava la Foresta del poeta maledetto, anche se in realtà non facevo nulla per renderlo una foresta. Non mi importava. Immaginavo e basta. Usavo la fantasia e per me era automatico e naturale. Non volevo comunicare o mandare un messaggio, se è questo che mi chiedi, ma intrattenere e dare vita a un mondo dove far immergere gli spettatori come se fossero dei bambini. Mi interessava l’atto di creare, raccontare e fare delle riprese. Soltanto questo. E poi era bello perché di volta in volta la cosa diventava sempre più avanzata, ma non è come adesso che cerco un senso e dei significati da poter esprimere.
Quindi più passava il tempo più i tuoi corti e le tue storie progredivano. E poi, crescendo, non hai mai pensato di raccontare altro oltre alle storie in sé?
No, non dico che per me era una cosa fine a se stessa, ma quasi. A contare era la storia, punto. E forse, non lo nego, pensavo anche a fare il figo che faceva i video fighi. Mi piaceva l’idea di essere un regista, un creativo. Fino ai quindici anni mi guardavo i film di Batman o altri eroi e poi realizzavo dei corti in cui recitavo la parte dell’agente segreto pieno di fascino che riusciva a spuntarla in qualsiasi occasione. Per me i film erano qualcosa non da comunicare ma da vivere. Io mi chiudevo nei mondi che creavo per una settimana intera ed ero sia il regista sia l’agente segreto. Nel frattempo i video diventavano più lunghi e tecnicamente migliori, ma alla fine ho realizzato corti soltanto fino a 15 anni, prima di entrare alla Scuola Navale Militare “Francesco Morosini” di Venezia. E la progressione si è fermata.
Cosa ti ha spinto ad andare al Morosini di Venezia? Che cosa cercavi?
Eh, bella domanda. Io non penso di essere stato costretto, ma di sicuro non era il sogno della mia vita. È andata così…terminato il biennio al Liceo Classico, mio padre, che è pilota, mi parla e mi propone di studiare nelle scuole militari. In Italia ce ne sono diverse. E a me l’idea devo dire che piaceva, ma non perché venisse da lui. Piuttosto, perché mi annoiavo. Okay, facevo film ed ero creativo, ma in qualche modo ero in fuga costante dalla realtà. I professori parlavano e io ero con la testa altrove, nei miei film e nelle mie storie. Pensavo che in una scuola come il Morosini avrei trovato gente più sincera.
Il mio liceo, il Visconti di Roma, era una scuola di ricconi, molto altolocata e anche dura e con alti standard. Era un mondo finto, squallido, pieno di apparenze e persone superficiali. E io mi sentivo alienato, cosa che andava di pari passo con le sensazioni dell’adolescenza. Ero io contro loro, e loro non mi piacevano. Poi a casa sono stato cresciuto in maniera spartana. Mamma e papà mi facevano uscire pochissimo e non ho avuto il telefono fino a 14 anni, anche se all’epoca tutti i coetanei ne avevano uno. I miei non seguivano i trend e le mode dei giochi per bambini. Stavo spesso da solo con me stesso, e quindi provenivo da un contesto dove ero un po’ un estraneo, un diverso. A pensarci, sono sempre stato un outsider. Durante le elementari e le medie, i pochi pomeriggi in cui uscivo, frequentavo gente che oggi è finita malissimo. Bene, di colpo mi sono ritrovato tra i ricchi della città. Una volta ho litigato con una ragazza perché si lamentava che quel mese aveva comprato un solo paio di scarpe. Ho provato una rabbia assurda. A un livello sia istintivo che superficiale queste cose mi hanno spinto ad andare al Morosini. Cercavo gente più vera, non coetanei che rincorrevano sciocchezze.
Paolo Valenti tra i banchi del Visconti di Roma, visibilmente insofferente del proprio ambiente
E a Venezia cosa hai trovato? E perché, tra le varie scuole militari presenti in Italia, hai scelto proprio Venezia?
Sono sempre stato un ribelle. Mio padre ha detto vai a Firenze e io sono andato a Venezia. A Venezia non c’ero ancora mai andato e mi intrigava come città. Firenze era attaccata a casa e sarebbe stato diverso. Volevo un taglio radicale. Crescere da solo. Lontano da casa e da quella vita. Quando l’avventura di Venezia è cominciata mi sono sentito subito più presente nella vita di tutti i giorni. Vivevo ventiquattro ore su ventiquattro con coetanei. Interagivo di più e stavo meno tempo da solo. In quegli anni, però, non mi è mai venuto in mente di suonare, l’altra mia grande passione, e nemmeno di fare riprese. Ho abbandonato completamente, travolto dal mondo militare, il mio lato creativo. Quasi non ci pensavo più. E non mi facevo domande sul futuro. Vivevo il presente perché era molto più reale, anche se me ne dispiaccio, perché quegli anni così preziosi li ho saltati tutti dal punto di vista creativo. Nel bene e nel male, però, mi hanno reso la persona che sono. Ho ancora un rapporto forte con quella Scuola. Non so come spiegare…non mi pento di averla fatta ma se tornassi indietro non la rifarei.
E poi una cosa fondamentale è stata andare via di casa, perché ho sviluppato una psiche personale non connessa ai conflitti con mio padre. Mio padre è stato un padre classico, distante. Ho pochi ricordi belli con lui e i rapporti tra di noi sono sempre stati conflittuali. Lo conosco poco come persona vera. Il nostro era un rapporto tra un superiore e un sottoposto, cosa che a me non è mai andata a genio. A casa sono sempre stato reattivo, ci davamo fastidio a vicenda. Essermene andato mi ha fatto certamente bene. Ero in una scuola militare, piena di regole, ma la mia mente era libera. Totalmente. E se facevo una cazzata la colpa arrivava a me, non ai miei genitori. È paradossale anche questo.
A sinistra Paolo Valenti, insieme a due amici e compagni di avventura. Sullo sfondo il vessillo del corso Meander (2012-2015)
Amicizie e rapporti forti, vita militare, ordine e disciplina. Tre anni di scuola, però, stanno presto a passare. Come ti sei sentito al termine dell’esperienza?
Mi sono sentito bene. Vivevo nell’illusione di aver completato la mia vita e il mio contesto, in un senso di appartenenza intenso e importante. Mi sono sentito a casa, in una famiglia, che è una cosa che in molti di noi hanno. Ho imparato molto, sono diventato indipendente e abituato al duro lavoro. Oltre a questo mi sono anche innamorato e ho vissuto esperienze di vita straordinarie. Ero felice, fiero di aver completato una missione e fortunato di appartenere a qualcosa di grande. Le mie passioni, però, erano sparite quasi del tutto.
Finito il Liceo, quindi, dovevi decidere che strada percorrere. Che cosa hai scelto e per quale motivo?
E’ stato un momento difficile, e per inerzia stavo per finire a fare il Carabiniere. Nelle selezioni sono persino arrivato alla commissione attitudinale. Gli ho detto la verità, però. Quando mi hanno chiesto “come fai ad essere sicuro che i Carabinieri siano la tua vita?” io ho risposto “Non lo so. Visto che sono in divisa forse sono adatto a questa vita”. “Non mi sembra che tu voglia entrare”, mi rispondono. E io gli dico: “Sì, infatti”. E così è finita. Ho scelto di tornare a Roma perché non sapevo cosa fare. In realtà lo sapevo: volevo fare cinema. Il problema è che non avevo il coraggio di farlo, di andare subito fino in fondo. Allora mi sono convinto che la strada giusta fosse prendermi una laurea tradizionale e sistemarmi in tutto e per tutto. E’ andata per Giurisprudenza. Mia madre ha uno studio legale e mi è sembrata un’idea sensata. Dopo sei anni di studio, forse, mi sarei dato al cinema.
Perché se nel profondo sentivi di voler fare cinema hai scelto di non farlo? Perché hai avuto paura?
Sì, si è trattato proprio di paura. I motivi, principalmente, erano due. Il primo era la mia paura personale. Nel mondo del cinema non avevo contatti, parenti, conoscenti, guide o persone con cui parlare. Era tutto una grande incognita. Il secondo fattore che mi ha portato a desistere veniva invece dalle persone a me vicine. Né la famiglia né la ragazza di allora mi appoggiavano. E sono finito a studiare Giurisprudenza. Solo che presto mi sono ritrovato nello stesso stato d’animo di quando ero al Visconti. Invece di ascoltare la lezione pensavo ai film da fare, perché nel frattempo la passione era riemersa. Usavo l’immaginazione per fuggire, per creare una realtà. E mi sono sentito regredito, come un tredicenne, un adolescente. Se all’inizio era figo, ben presto è girata male. Non andavo più a lezione, me ne stavo in solitudine e studiavo pochissimo. Sono stato a Roma per due anni, fino a quando mi è venuta una crisi esistenziale perché non riuscivo più a immaginarmi il futuro. Non mi piaceva com’ero e nemmeno quello che facevo. Mi sentivo miserabile. Come potevo considerare ovvio il fatto di studiare Legge per sei anni e poi entrare nel cinema? Difficilmente avrei fatto il regista. Finiva che mi sistemavo e il cinema lo vedevo col binocolo, sotto forma di un sentimento represso dalle circostanze.
Il cinema, mi pare di capire, da cui ti sei allontanato una prima volta negli anni del Liceo e poi durante l’Università, non ti ha mai abbandonato veramente. Era sempre compagno delle tue vicende. Quando hai capito che dovevi seguirlo fino in fondo altrimenti non ne avresti mai più avuto l’occasione?
Più o meno dopo due anni, ma forse un po’ prima. Per capire che il cinema era la mia strada ho dovuto rinnegarlo, allontanandomene al massimo. È come se avessi cercato di punirmi, di allontanarmi dalla cosa che più mi rendeva felice. Non so spiegarmi bene, ma ogni tanto lo faccio ancora. Mi lascio andare allo sconforto e alla solitudine per mettermi contro i doni di Dio. Sento il bisogno di punirmi. Il problema è che sento anche, mentre lo faccio, di peccare. Non ho più retto e ho dovuto abbandonare Giurisprudenza. Mi sembrava di morire ogni giorno. Non ce la facevo più. Allora mi sono informato e ho trovato la mia strada: avrei studiato Digital Film Production alla Regents University London. Avrei vissuto a Londra, in Inghilterra, nella patria dei miei idoli: i Beatles, i Rolling Stones, i Pink Floyd, gli Oasis.
Mi sono acceso di speranza e vedevo il senso della mia passione. Mi sentivo felicissimo e, immaginandomi di vivere in Inghilterra, capivo finalmente di essermi ascoltato. Con i miei non ho nemmeno discusso prima di decidere. Ho semplicemente comunicato la mia scelta. Mia madre, a cui sono legatissimo, era preoccupata come solo sanno esserlo le madri. Oltretutto è da lei che viene la passione per la narrativa e l’arte in generale. Quando ero piccolo mi leggeva i libri prima di andare a letto, guardavamo i film insieme e poi ne discutevamo. È stata incoraggiante culturalmente. Bene, a lei e ho spiegato le mie motivazioni. Era una cosa non impulsiva ma che aspettavo da tutta la vita, e anche se era perplessa mi ha supportato con grande coraggio. Con mio padre ho litigato qualche settimana…
A breve la seconda parte dell’intervista, dove saranno presentati alcuni dei lavori di Paolo Valenti.