
Emanuele Faraco, nato a Napoli nel 1991, è uno dei triatleti italiani più forti del momento. È tesserato presso l’ASD “Terra dello Sport” di Pompei e si allena alla Seven Miles Performance Squad (7MP) di Settimo Milanese. Ha collezionato numerose vittorie e podi in competizioni di interesse nazionale ed è arrivato 5° classificato nel Campionato italiano di Triathlon Medio nel 2020 e nel 2021, 10° classificato nel Campionato italiano di Triathlon Olimpico del 2020, 6° classificato al Campionato italiano di Duathlon classico nel 2021 e Campione di categoria.
La sua storia, però, a differenza di quella della maggior parte degli atleti, è molto particolare e non affonda le sue radici solamente nel mondo dello sport. Emanuele è infatti professionista, ovvero atleta a tempo pieno, solamente da tre anni, e nella sua vita, che lo ha condotto in Australia come in Spagna e in Francia come in Costa Rica, si è trovato quasi sempre in ambienti che con lo sport avevano ben poco a che fare. È chiaro, per capire come in così poco tempo abbia raggiunto livelli così alti, che bisogna andare indietro negli anni e ripercorrere alcune delle tappe che lo hanno portato fin qui.
A volte, anche senza che lo sappiamo, infatti, una passione può scorrere nelle vene con un’intensità impensabile. E se questa passione possiamo sentirla o non sentirla, a volte fare finta di non ascoltarla e respingerla, prima o poi arriverà il momento in cui affrontarla e decidere di diventare chi vogliamo essere. Emanuele Faraco, nella sua storia, ha scelto di correre, nuotare e pedalare fino in fondo.
Emanuele, la tua, come abbiamo detto, è una storia un po’ atipica. Prima di darti completamente allo sport e al professionismo hai vissuto esperienze e situazioni molto particolari. Ti va di raccontarcele?
Certo, come hai detto è da soli tre anni che faccio dello sport il mio lavoro. Da ragazzo ho giocato a calcio fino ai quattordici anni e poi ho fatto nuoto fino ai diciotto. Da quel momento non ho più praticato attività a livello serio, almeno fino ai venticinque anni. Ho preferito viaggiare, invece, perché il mio spirito, prima di fermarsi sul triathlon, ha dovuto vagare per diverse e lunghe mete.
Terminate le scuole superiori, ho quindi iniziato a studiare Scienze dell’Amministrazione alla Federico II di Napoli e nel frattempo facevo l’istruttore di nuoto. Non mi sentivo, però, bene con me stesso. Qualcosa è scattato in me e ho deciso, di punto in bianco, di prendere un biglietto di sola andata per l’Australia e lasciare il mio paese nel giro di due settimane. Non ne avevo ancora parlato con nessuno, era una cosa con me stesso, e quando l’ho detto a mia madre, all’inizio pensava che scherzassi. In realtà facevo sul serio.In tasca avevo 700 euro. “O lavoro o me ne torno”, pensavo. Alla fine, devo dire, è andata bene. Ho lavorato come lavapiatti, pizzaiolo, barista e bagnino e ho passato del tempo anche in una fabbrica di succhi d’arancia. Ho fatto un po’ di tutto, insomma. E sono stato a Perth, Freemantle (dove ho passato la maggior parte del tempo), Sidney, Adelaide e Moorook. In tutto mi sono fermato in Australia per undici mesi. E in quell’anno, per me, è cambiato tutto. Non ero più lo stesso. Ascoltavo le storie delle persone e mi rendevo conto di quanto fossimo piccoli. Ognuno di noi, infatti, ha una storia da condividere e siamo veramente minuscoli nell’infinità dell’universo. Grazie all’Australia, adesso vedo le persone come esseri speciali. Ognuno di noi ha qualcosa di straordinario da raccontare che vale la pena di ascoltare. Bisogna sentire quello che uno ha da dire. Spesso la gente non riesce ad ascoltare né a provare empatia. Dall’Australia, grazie a questo, ho imparato ad affrontare le cose in modo nuovo.
E poi, sai, mi sono spostato di continuo, e là anche il resto della gente lo fa spesso. Anche questo l’ho imparato dall’Australia. Quando sono tornato in Italia, infatti, ho deciso subito che sarei ripartito, un’altra volta, anche se non avevo una meta precisa. Succede quindi che vado in viaggio con degli amici a Barcellona e mi innamoro della città, capendo che quella sarebbe stata la mia destinazione. Ci sono rimasto per due anni e mezzo e ho lavorato nel turismo. Sono stato promoter, ho gestito un bar, organizzato vacanze e lavorato in coffee shop. Era una vita completamente opposta a quella di adesso: facevo feste e vivevo alla giornata. Barcellona, nonostante alcuni momenti significativi, è stata però la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non mi sentivo felice e non dormivo bene la notte. Da quel momento ho iniziato a mettere in discussione tutte le mie scelte e a riflettere su me stesso. Anche se non ero sicuro sul da farsi, perlomeno ho iniziato ad ascoltarmi.
Che rapporto hai avuto con lo sport mentre eri in Australia e in Spagna?
Un rapporto d’amore, ovviamente. Nel tempo libero, quando potevo, andavo sempre a fare le mie corse e le mie nuotate. Lo sport mi faceva stare bene. Era la mia valvola di sfogo e la mia ancora di salvezza. Ma non solo. Era qualcosa che avevo dentro e che era parte di me. E anche se non avevo ancora la consapevolezza di questo amore, di lì a poco l’avrei sentita con relativa semplicità. Dopo Barcellona, infatti, ho tentato di aprire una mia attività in Costa Rica ma le cose non sono andate come speravo. Torno in Italia per qualche mese ed infine decido di trasferirmi in Francia, ad Aix en Provence, nel 2016, dove è nato tutto.
È in Francia che sono cambiate veramente le cose. In quella fase della mia vita ho capito che volevo un equilibrio, l’equilibrio fisico e mentale che solo lo sport sa dare. Equilibrio anche geografico, devo aggiungere. Non potevo più spostarmi così di continuo. Mi sono guardato dentro, ho pensato all’amore infinito che sentivo per lo sport e mi sono detto: “Devo ricominciare”.
Da come ne parli, più che un inizio il tuo è stato un “ritorno” a qualcosa a cui eri già legato, come un figlio che dopo molti anni si ricongiunge ad una madre che lo ha sempre aspettato a braccia aperte. È così?
Esatto, anche se è un po’ strano perché il triathlon non lo avevo mai praticato in realtà. Però probabilmente lo amavo, e ce l’ avevo nel sangue, prima ancora di incominciarlo. Ricordo che da ragazzino guardavo con grande passione l’ironman (la gara più dura del triathlon: 3,8 km a nuoto, 180 km in bicicletta più una maratona da 42 km) e ho iniziato a interessarmi sempre di più a tutto il mondo del triathlon, con un’intensità che non avevo mai provato per gli altri sport. L’interesse, però, non si era mai trasformato in concretezza fino a quando ho partecipato al Salone dello Sport ad Aix en Provence.
Mi sono iscritto sia ad una squadra di calcio che ad una di triathlon. Dopo alcuni mesi lascio il calcio e mi dedico completamente al triathlon. È stato quello il mio inizio vero e proprio. In Francia il mio sport è sempre stato strutturato benissimo, tra l’altro. Girano molti più soldi che in Italia e ci sono tantissimi allenatori e infrastrutture moderne. C’è cultura, potremmo dire. Ovviamente gli allenamenti erano molto intensi, ma è stato relativamente semplice inserirsi in questo sport. Mi piace allenarmi e sentire il cambiamento.
Com’è stato, quindi, entrare nel mondo del triathlon a livello competitivo?
Vedendo dei miglioramenti consistenti in pochissimi mesi, ho iniziato a dedicare sempre più tempo agli allenamenti e sono entrato in un’ottica totalmente agonistica. Le gare mi sono piaciute fin da subito, e sapevo che potevo raggiungere risultati sempre più alti. Certo, stavo bene e mi sentivo finalmente felice. Lo sport mi ha sempre dato pace e in qualche modo mi sono riappropriato di me stesso, ma arrivato a quel punto volevo mettermi alla prova e spingermi al massimo. Non era più soltanto una passione. Nel 2017, in un periodo in cui ero tornato in Italia (quando stavo in Francia c’erano periodi in cui rientravo regolarmente a casa), ho vinto una gara ad Ischia e una a Castel Volturno. E pensare che l’anno prima ero arrivato solamente trentesimo!
Sono questi i risultati che mi hanno spinto a continuare e a cercare di spingermi oltre i limiti. Senza l’allenamento in Francia non ce l’avrei mai fatta. Dovevo andare oltre. E ancora oggi la penso così: non ho ancora oltrepassato i miei limiti. Sai, è vero che ho iniziato tardi ad allenarmi e a competere ad alti livelli, ma questo è anche un vantaggio. Il lato negativo è che ho 30 anni e quindi meno anni di carriera rispetto a chi, magari, ha 20 anni e pratica questo sport da quando è ragazzino. Il lato positivo, però, è che ho margini di miglioramento molto più elevati di molti di loro. Ho appena cominciato e so che posso ancora dare molto. Non ho ancora raggiunto il mio stallo, il mio massimo. E non ho intenzione di mollare. Attualmente sono nella top 20 italiana, ma il mio obiettivo è raggiungere risultati ancora più grandi, come partecipare ad alcune tappe della Coppa Europa e della Coppa del Mondo. Adesso che da qualche anno sono stabile in Italia, qui a Milano, sono certo che tutto quanto giocherà a mio favore.
Da atleta professionista, come hai vissuto il periodo del Covid, soprattutto nella fase più dura?
Il momento più difficile, senza dubbio, è stato un anno e mezzo fa, a marzo-aprile del 2020, proprio all’inizio della pandemia, quando c’è stato il lockdown totale. Per due mesi sono stato senza nuotare. Nella mia società, infatti, solo in quattro potevano farlo, perché c’erano dei criteri altissimi di selezione. Potevano nuotare solamente i campioni nazionali. Dopo due mesi, però, il mio allenatore si è ingegnato e ha comprato una piscinetta, di quelle smontabili da due-tre metri, e abbiamo iniziato ad allenarci nuotando legati. Riprendere è stato difficile, prima di tornare alla normalità, perché il nuoto è lo sport che devi praticare con più frequenza. Basta poco per scendere di livello.
Per la corsa, invece, avevamo un anello di sterrato di 700 metri e ci allenavamo lì. Per quanto riguarda la bicicletta, invece, ci siamo attrezzati pedalando su dei ciclomulini, che si sono comprati in moltissimi, amatori e professionisti. Il dispositivo era inoltre collegato ad uno schermo che ti dava anche la possibilità di vedere la tua velocità di percorrenza e il ritmo. E in questo modo, grazie ad internet, si sono svolte anche moltissime gare online. Il ciclomulino, collegato ad un monitor, indicava, oltre alla velocità, anche la frequenza cardiaca, i watt e tutto il resto. Era come un videogioco, gli atleti potevano competere a tutti gli effetti, virtualmente, ma lo sforzo era reale. Tornare ad allenarsi nella normalità, però, è stata una liberazione. Io amo allenarmi, per me è tutto. E spero che nei mesi a venire, con l’autunno e con l’inverno, la situazione si stabilizzi sempre di più, per ogni tipo di sport.
Dati alla mano, e non saprei nemmeno da dove cominciare, lo sport italiano sta vivendo un periodo incredibile. In particolar modo questa estate, i successi di voi sportivi, a livello internazionale, sono stati moltissimi. Cosa ne pensi di tutto questo e quale futuro vedi per lo sport in Italia?
Il momento che stiamo vivendo, come hai detto tu, è pazzesco. In tutti gli sport, e le Olimpiadi lo hanno dimostrato chiaramente, abbiamo ottenuto risultati altissimi. Sia chiaro, non vorrei essere ipercritico o negativo, però anziché esprimere le solite parole d’elogio ai colleghi atleti, che ovviamente stimo tantissimo, preferirei sottolineare qualcosa che giace in sottofondo un po’ dappertutto e che penso andrebbe migliorato, sia a livello di atteggiamento che di comportamento.
Ne ho parlato in una mia storia su Facebook proprio dopo l’oro di Jacobs alle Olimpiadi. Cioè, tutta l’Italia ha festeggiato per i risultati delle Olimpiadi. E quando qualcuno vince sono tutti contenti, ma poi, nella vita di tutti i giorni, quando la gente vede qualcuno che si allena in bicicletta per strada o corre, non è mai attenta. Anzi, ne è infastidita e spesso si arrabbia con i ciclisti. Allora, uno pensa, dovrebbero esistere più strutture, così la gente si allena nelle strutture. Ma ovviamente non è così. Prendi il caso di Pero, qui a Milano. C’era una pista di atletica e l’hanno tolta. E allora che senso ha gioire ed esultare per i risultati dell’atletica italiana quando si fa così poco, nel concreto, per tutelare quello che già abbiamo oppure per investire in strutture nuove e più moderne? È facile salire sul carro dei vincitori, ma nella realtà c’è bisogno di altro. Anche le scuole e le società sportive dovrebbero venire incontro agli atleti. Per dirti, ho un’amica che è andata alle Olimpiadi. Quando è tornata a casa ad allenarsi, le hanno fatto pagare l’ingresso in piscina. È un problema enorme se nemmeno le società si impegnano a tutelare i propri atleti.
Quello che mi auguro, per il futuro del nostro paese, è che ci sia maggiore attenzione, interesse e facilità d’accesso per ogni tipo di sport, perché da questo dipendono un’infinità cose. Lo sport salva dalla strada, dalle cattive abitudini, dalla negatività e aiuta a organizzare il tempo. Per i giovani, soprattutto, è fondamentale, perché contribuisce a formare la persona. Non è una semplice valvola di sfogo o un passatempo sano. È un modo per capire ed esplorare se stessi, le proprie emozioni e le proprie potenzialità. È un modo di vivere la vita e di vedere le cose. Quello che mi auguro, per certi aspetti, è che cambi il modo di vedere tutto questo, a livello collettivo ed istituzionale.