
A pochi passi dal Duomo ma già profonda periferia. Calvairate rappresenta forse più di ogni altro quartiere l’anima anarchica di Milano. Quella che non sa vestirsi pur essendo nella città della moda.
Il borgo di Calvairate, sorto nei secoli scorsi alle porte della città, venne inglobato nella metropoli negli anni del fascismo, quando la chiesa barocca del paese venne abbattuta per far spazio a piazzale Martini. Con la costruzione della circonvallazione esterna, a est sdoppiata in due lunghi viali, dal paese di provincia si passò al quartiere periferico.
La grande emigrazione dal Mezzogiorno parte dagli anni trenta del secolo scorso, per proseguire a ritmi sempre più forti nel dopoguerra. Negli anni del boom Calvairate parla milanese, pugliese, napoletano e siciliano. Oggi parla anche egiziano, specie nella sua parte orientale, e in diverse altre lingue.
Uno dei primi quartieri ad accogliere masse di meridionali è Calvairate, un emblema meticcio della città. Calvairate è sporca, alcune sue vie sono contraddistinte da rifiuti di ogni tipo abbandonati sul ciglio della strada. Via Tommei per esempio, una Y tra le case popolari (quelle che diedero i nativi nientemeno che a Carla Fracci) dove è facile imbattersi in un’auto carbonizzata o nel telaio di una bici a cui sono state fregate le ruote. Dall’eleganza della più grande étoile della Scala alle cacche dei cani non raccolte: forse via Tommei era meglio qualche decennio fa.
Due passi da lì e si è in viale Umbria, in via Friuli e in via Cadore. Quest’ultima, stando alle mappe, è già fuori dal quartiere. Sì è quasi in centro, tra palazzi borghesi, bar e ristoranti eleganti ma senza troppi fronzoli, quasi che gli anni dello yuppismo e della Milano da Bere non siano mai passati. La borghesia produttiva meneghina vive anche qui. Fa la spesa al Carrefour Market di via Maestri Campionesi e si concede qualche sera in uno dei locali nei pressi di Piazzale Libia.
Tornando verso l’enorme viale Molise, ci si immerge in una Milano popolare a 40 minuti a piedi dal Duomo. Calvairate è la zona a due chilometri dal centro di Milano in cui le case costano meno. Quartieri molto più eleganti e dai prezzi molto meno accessibili (Portello, Washington, Isola) distano molto più dalla Madonnina rispetto a Calvairate. È considerata “semiperiferia” Calvairate, ma se si cammina tra i due cuori del quartiere, piazza Insubria e piazzale Martini, si notano similitudini con quartieri come Gratosoglio, Baggio o Bovisasca. Eppure siamo quasi in centro. Percorrendo via Ennio verso il centro si vede all’orizzonte l’imponente e anonima Torre Libeskin, uno dei tre nuovissimi grattacieli della zona nord-ovest. Dal cavalcavia sopra Porta Vittoria la splendida Torre Velasca ci sembra vicina. E subito dopo di lei appaiono le guglie del Duomo.
Dopo la legge Basaglia molti appartamenti delle case IACP Molise-Calvairate-Ponti vennero assegnate a persone con disturbi psichici. Calvairate è anche il quartiere dei matti.
Dei matti e dei creativi. Quando aprì il locale Bachelite (nome che omaggia un disco degli Offlaga Disco Pax) la cultura “indie” non era diffusa (o commerciale) come oggi. Ma se il neonato Nolo (fino a qualche anno fa era semplicemente una parte di Turro) è diventato il centro dell’indie milanese, a Calvairate il rap (o la trap) vanno per la maggiore. Ai fighettini un po’ di sinistra che fanno gli indie preferisco l’anima più incazzata, scaltra e smaliziata dei rapper di oggi. Li vedo come cugini minori e posso dire di apprezzare la Calvairate cantata da Rkomi o le ragazze del quartiere raccontate da Comagatte. Pure Tedua è giunto qua: in un ipotetico dissing con Nolo non ci sarebbe storia.
Chissà che ne direbbero i gestori della pagina Facebook che unisce tanti abitanti del quartiere. Un tempo si chiamava “Loggia di Calvairate”, non so bene perché. Dal gruppo social si è arrivati a una radio di quartiere. Se Calvairate fa parlare di sé a Milano, il merito va anche a loro. Sulle pagine social del quartiere i residenti possono informarsi su appartamenti in affitto, vecchi oggetti da vendere o litigare sugli sgomberi agli abusivi. E si arriva a Macao.
I ragazzi del centro sociale Macao, dopo Brera e Torre Galfa, finirono in una delle palazzine dell’ex Macello. Lì ho vissuto i miei ultimi rave, quando mi accorsi di non essere più portato per i rave. Contestato dalle destre, non così amato dalla sinistra istituzionale finita al governo cittadino, Macao con i suoi pregi e difetti ha dato ossigeno culturale a Calvairate ed è un bene che ci sia. Specie ora che contribuisce a distribuire pacchi alimentari agli indigenti.
Calvairate attrae anche quella che molti chiamano feccia: dai vagabondi che pernottano negli altri spazi dell’ex Macello, a qualche vecchio tossico che negli anni ’80 e ’90 avrà “zombeggiato” nei parchetti di chissà quale città.
Tossici, barboni e ovviamente zingari. Molti di loro vivono nel campo alla fine di via Bonfadini e in giornata passano per il quartiere. Vivo nel quartiere da dieci anni e ho sentito almeno una volta un cinese, un peruviano, un est europeo e diversi egiziani inveire contro di loro. Su questo punto l’integrazione degli stranieri a Milano c’è stata. Sul “daghela al strolich” son tutti d’accordo. Poi la domenica, quando riappare il mercatino delle pulci di viale Puglie, in tanti si ritrovano lì, con i portafogli ben nascosti.
Quando l’attuale Aldi era ancora Superdì, ricordo una tossica che decise di farsi una birra gratis a temperatura ambiente. Tra tutte le birre sugli scaffali scelse quella di sottomarca. Poteva bersene una artigianale da 3.99 euro, invece scelse la più economica. Non penso però che quei 50 centesimi abbiano influito sul fallimento della società Superdì. Un supermercato che era il vero polmone alimentare del quartiere. L’Aldi, con il suo ordine da discount teutonico, non penso sappia regalare le emozioni del Superdì, catena di supermarket di media grandezza diffusasi tra Brianza, Varesotto e Piemonte orientale. Vidi un anziano fermato da un imbarazzato bodyguard etiope per aver rubato una confezione di insalata; lo svolazzare un piccione tra gli scaffali e quando lo feci notare a uno dei commessi, quello ipertatuato, questi mi rispose “Eh minchia, ce lo mangiamo”.
Si rimpiange un po’ il Superdì, come si è rimpianto Pracchi o la trattoria Jolly, cinese di proprietà ma milanesissima nei suoi piatti. Il menù fisso a 8 euro a mezzogiorno trasformava il bar-trattoria in un centro anziani con tanto di partitine a carte.
La gelateria Melaverde, il prestinaio Orsi, il bar-trattoria Victoire i kebab di piazzale Cuoco (che con tutto il rispetto per il patriota napoletano potrebbe benissimo essere rinominata piazzale Nasser), la pizza sulle enormi teglie metalliche di via Ennio. Alla faccia del quartiere popolare, abbiamo pure due ristoranti con segnalazione Michelin: Nuovo Macello e Trattoria Masuelli. E il ristorante Sudan (un altro nome che mi ha sempre incuriosito, pur non avendo mai avuto il coraggio di chiedere la ragione della scelta ai proprietari) in via Tertulliano.
Ho letto da diverse parti che quelli di Tertulliano si considerano quartiere a sé, fuori da Calvairate. Fino al parco Marcello Candia e all’Ipercoop probabilmente è ancora Calvairate. Certo, una Calvairate più ordinata e da famiglie da spot del Mulino Bianco (andate un pomeriggio primaverile al parco Candia per farvi un’idea), ma sempre una faccia del nostro quartiere.
È la zona del teatro di quartiere, l’Oscar, subito dietro la mastodontica chiesa di stile fascista finto romanico dedicata a San Pio V e Santa Maria di Calvairate (venne costruita subito dopo l’abbattimento della vecchia parrocchiale). La chiesa che preferisco, da agnostico, è però l’altra: quella dalla parte orientale di viale Molise, zona in cui ho la fortuna e sfortuna di vivere. La postconciliare Sant’Eugenio trasuda di boom economico, di architettura probabilmente più marxista che cattolica, ma affacciandosi alle case popolari Ponti, ora abbellite dal celebre murales AMA, mette in scena l’anima sacra e quella profana del quartiere. Proprio in via del Turchino, nel 2011 morì in circostanza mai chiarite Michele Ferrulli, uomo del quartiere che non deve essere dimenticato. A proposito, la chiesa di Sant’Eugenio fu costruita nella seconda metà degli anni sessanta, le case Ponti alla fine degli anni trenta. La prima fu teatro della prima messa beat in Italia, le seconde (realizzate dagli architetti razionalisti Franco Albini, Renato Camus e Giancarlo Palanti) sono finite su manuali di architettura. A vederle non si direbbe.
L’Ortomercato è il punto di riferimento per farci capire a chi non conosce il quartiere. E comprare una cassa di verdura o frutta il sabato mattina non è uno sgarro al mercato del mercoledì. Per un paio d’anni, 2015 e 2016, lo spazio ora occupato dai parcheggi di Foody fu teatro del Market Sound, la risposta di Calvairate al Carroponte. Fallì prima della pandemia, ma qualche bel concerto lo regalò.
Il quartiere ha visto nascere, crescere o semplicemente soggiornare alcune celebrità. Oltre alla Fracci e ai rapper citati, qui ha vissuto per parecchi anni Povia. Da Carla Fracci a Povia: non si può sempre vincere. Elio (che forse avrà da ridire per come il quartiere sia stato tutto sommato indifferente alla presenza di X-Factor nel fu Teatro Linear Ciak) ha studiato all’Einstein, istituto ricco di murales e, si spera, di ribellione adolescenziale (mai sopportato quelli nati adulti).
C’è ancora tanto da scrivere. Calvairate è un microcosmo interno a Milano, delimitato dalla ferrovia a sud, a est e a nord (qui in congiunzione con Largo Marinai d’Italia), mentre a ovest si apre al centro, quello che porta alla zona Ztl. Sopra la stazione sotterranea di Porta Vittoria sorgerà un’altra speculazione edilizia, un bel parco o la mai nata Biblioteca Europea?
Come le vecchie coree a ridosso dei palazzoni anni ’50 raccontate da Cesare Zavattini e Vittorio De Sica in “Miracolo a Milano”, noi di Calvairate siamo le baracche subito dopo i palazzi signorili abitati di chi la domenica pomeriggio va al Teatro Parenti. E ci andavo pure io, ma venivo subito riconosciuto. Perché a Calvairate, e basta fare due passi nel quartiere per rendersene conto (mi sono imbattuto in sandali con le calze ben prima che lo facesse Chiara Ferragni), siamo molto distanti dal Quadrilatero. Forse sono proprio gli abiti a delimitare il quartiere. A Calva ci si veste male (e io non sono da meno). Sappiatelo prima di metterci piede.