Il 25 aprile con le parole del grande scrittore, poeta e traduttore Cesare Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo e morto suicida il 27 agosto del 1950, in un albergo a Torino. Un’esistenza tormentata finita in tragedia.
Un talento coraggioso, con una scrittura vera, innovativa, che scava nella coscienza per recuperarne le verità senza artifici. Sempre presente e autenticamente se stesso. Ironico, semplice, genuino, libero, anche quando s’iscrive al Partito Comunista, resta avverso alle ideologie e a favore della solitudine. Lo scrittore rivela la fragilità dell’uomo, solo con i suoi dubbi e il senso di inutilità. Ama la campagna, i racconti dei contadini, i viali delle città, la musica.
Il bisogno di amore sembra una costante che lo accompagna e che non trova conforto fino al suo addio: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Morto proprio nell’anno in cui vince il Premio Strega con La bella estate. Il successo letterario non basta a trattenerlo, ne resta deluso. E il richiamo della morte, un “vizio assurdo”, a quanto pare non lo abbandona. Neanche le sue note traduzioni come Moby Dick o La balena, Ritratto dell’artista da giovane, David Copperfield, Capitano Smith, lo salvano.
Tormentato e alla ricerca di se stesso, lascia l’eredità della sua “cenere” con i libri, i diari, le poesie da Paesi tuoi, Prima che il gallo canti, Dialoghi con Leucò, La luna e i falò, ai versi delle raccolte Lavorare stanca, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Pavese viene da una famiglia agiata, il padre lavora come cancelliere del tribunale di Torino, dove poi si trasferiscono. Ma presto la perdita del padre per un tumore al cervello nel 1914 e il carattere autoritario e freddo della madre, segnano la vita dello scrittore e la natura introversa.
Trascorre un’infanzia triste, affidato a una balia per la salute cagionevole della madre e vive a Torino e a Reaglie nei periodi estivi. Si laurea in Lettere, dimostrando una passione per la letteratura americana e iniziando dopo gli studi l’attività di traduttore e insegnante. Collabora con la casa editrice Einaudi e frequenta intellettuali come Leone Ginzburg. In questo periodo con la morte della madre nel 1931, vive con la sorella e viene anche arrestato per azioni antifasciste. Tra il 1943-1945 si ritira con la sorella in un paese del Monferrato e appare sempre più isolato, dedicandosi ai libri e i diari.
L’umanità e la sofferenza di Pavese arrivano vivi nei suoi scritti. Gli amori travagliati, brevi, sembrano destinati sempre a donne respingenti riproponendo le dinamiche di quello materno. Donne a cui dedica poesie come a Tina Pizzardo con Ricordo. E poi alla ex studentessa Fernanda Pivano, con Mattino, Estate e Notturno, di cui si innamora, ma che lei non ricambia. E altre come Bianca Garufi e l’attrice americana Costance Dowling, l’ultima delusione prima del suo addio. In una lettera per lei mesi prima della morte: “Non sono più in animo di scrivere poesie. Le poesie sono venute a te e se ne vanno con te”. Eppure se avesse voluto non mancano attenzioni e fiori da corteggiatrici, che sarebbero state felici di donarsi e condividere il loro tempo.
E a proposito del suicidio scrive: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte”. Ci vuole coraggio ad andarsene e altrettanto a restare in un vuoto pesante. Forse ha scelto il peso minore.
Tra i racconti che risalgono all’ultimo periodo La casa in collina, pubblicato da Einaudi con Il carcere nel volume Prima che il gallo canti del 1948. Affronta il tema della Guerra, la Resistenza, i rimorsi e la solitudine, di chi non riesce a trovare sollievo solo nell’ideologia e nella lotta contro i fascisti. La guerra civile resta una guerra, inumana, con i suoi morti e le sconfitte a prescindere dalle vittorie e dal ruolo, sono tutti coinvolti.
La trama del libro, ha come protagonista un professore Corrado, che la sera si rifugia nella collina torinese, dove ritrova gli amici e Cate, con cui ha avuto una relazione e che ha un figlio a lui molto somigliante. Nella piccola comunità, gli amici pur nascondendosi, partecipano alla Resistenza con coraggio, mentre lui resta distante da quell’entusiasmo, combattuto. La situazione precipita quando i nazisti arrivano e catturano Cate e i suoi amici e neanche la collina riesce a preservarli. A quel punto, la guerra e la lotta coinvolgono tutti. Corrado riesce a tornare a casa, ma gli eventi lo portano a riflettere e la salvezza diventa la sua condanna. Resta intrappolato nella sua solitudine in una crisi esistenziale.
Le parole di Pavese nel libro con Condanniamo la Guerra, possono essere anche un omaggio al 25 aprile, la Festa della Liberazione in Italia dall’occupazione nazista e fascista, dove contano il valore dell’uomo e la sua fragile umanità. Il nemico ci somiglia, siamo noi, uguali e diversi, coinvolti e ancorati nello stesso destino di chi resta e chi muore.
Ho visto morti sconosciuti.
Sono questi che mi hanno svegliato.
Se un ignoto, un nemico diventa, morendo,
una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura di scavarlo,
vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno,
che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo,
dare una voce a questo sangue,
giustificare chi l’ha sparso.
Guardare certi morti è umiliante.
Non sono più faccenda altrui;
non ci si sente capitati sul posto per caso.
Si ha l’impressione che lo stesso destino
che ha messo a terra quei corpi,
tenga noialtri inchiodati a vederli,
a riempircene gli occhi,
Non è paura, non è la solita vita.
Ci si sente umiliati, perché si capisce,
– tocca con gli occhi-
che al posto del morto potremmo esserci noi:
non ci sarebbe differenza,
e se viviamo dobbiamo al cadavere imbrattato.
Per questo ogni guerra è una guerra civile:
ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.