
Con l’espressione arte informale si intende la nuova astrazione comparsa dagli anni Quaranta in Europa che rinuncia a qualsiasi forma e si compone solo di segni e colore liberamente disposti su tela. La genericità della definizione, concettuale molto ampia, fa si che non sia riferibile a una scuola precisa e che possa comprendere anche l’esperienze americane dell’ Espressionismo astratto e dell’ Action Painting.
Negli anni Cinquanta in Italia, alcuni artisti, si avvicinarono all’Informale e alla pittura gestuale, sperimentando le potenzialità del segno e della materia. Ma gli artisti più interessanti e più innovativi, in questo ambito, furono Lucio Fontana (1899-1968) e Alberto Burri (1915-1995).
Di origine argentina, Fontana si formò all’Accademia di Brera, a Milano, ma fin da giovane fu attento alle novità dell’avanguardia internazionali. Fin dagli anni Trenta aveva fatto parte del gruppo dei primi astrattisti milanesi, ma nella fase giovanile continuò ad alternare opere astratte e opere figurative. Dalla metà degli anni Quaranta iniziò a riflettere sul concetto di ambiente e di spazio e progettò quelli che lui stesso definì ambienti spaziali, ovvero installazioni tridimensionali, per le quali utilizzò diversi materiali, tra cui anche in neon. Il primo è l’ambiente spaziale con forme spaziali e illuminazione a luce nera, realizzato nel 1949 alla galleria milanese il Naviglio. Due anni dopo, alla Triennale di Milano, propose un nuovo ambiente spaziale, creato con un neon spiraliforme lungo circa cento metri.
Nel 1951 pubblicò il Manifesto tecnico dello spazialismo, in cui definì il concetto di unità di tempo e di spazio nella sua opera. Già nel 1949 aveva forzato la superficie piatta nella tela, aprendola con uno squarcio: fu il primo dei celeberrimi “tagli”, solitamente intitolati Concetto Spaziale con i quali l’artista superava il limite bidimensionale del supporto pittorico, donandogli una nuove dimensione. Nel 1968 per la mostra documentata di Kassel, progettò l’ultimo Ambiente spaziale, costituito da un labirinto di luce, al termine del quale si apriva un taglio; fu questa la sintesi della sua lunga ricerca.
L’intera parabola artistica di Burri fu consacrata a uno stretto dialogo con la materia. Utilizzò prevalentemente materiali poveri, materiali di scarto e materiali inconsueti, nobilitandoli con il suo lavoro ed elevandoli a opera d’arte.
Nel 1943, durante la guerra venne fatto prigioniero dagli inglesi e portato in campo di prigionia nel Texas, dove iniziò a dedicarsi alla pittura. Tornato in Italia, nella seconda metà degli anni quaranta eseguì le prime opere informali e diede vita alla serie dei Bianchi e dei Catrami. Al 1949 risale il primo Sacco, con il quale si codifica una delle formule più espressive più riuscite della ricca e articolata produzione di Burri. Si tratta di sacchi di tela grezza e rattoppata, in cui la materia nuda viene esibita in tutta la sua crudezza ed essenzialità. Dal 1950 comparvero le Muffe e i Gobbi , nei cui telai inserì elementi che estroflettono la tela, conferendole plasticità.
Nel 1951, insieme a Giuseppe Capogrossi (1900-72) ed Ettore Colla ( 1896-68), fu tra i fondatori del gruppo Origine, con l’obbiettivo di proporre nuove forme di astrazione, indipendenti dalle esperienze della prima metà del Novecento. Negli anni Cinquanta e Sessanta si dedicò alle Combustioni, sostituendo il pennello con il fuoco. Iniziò realizzando piccole bruciature su carta, per poi passare ai Legni e alle Plastiche e ai Ferri: queste opere sono metafora della deperibilità della materia, per sua natura decadente ed effimera. A Città di Castello, suo paese natale, nella straordinaria sede degli ex essiccatoi di tabacco sorge un museo a lui dedicato.