
La decisione del primo ministro britannico Boris Johnson di sospendere il parlamento fino a metà ottobre, quando mancheranno meno di venti giorni all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ha scatenato un putiferio in Gran Bretagna.
Nell’arco di neanche ventiquattro ore sono state raccolte oltre un milione di firme contro la sospensione dei lavori parlamentari mentre il presidente della Camera dei Comuni John Bercow e le opposizioni hanno gridato al colpo di Stato e all’uccisione della democrazia.
Johnson ha compiuto questa mossa audace – e con pochissimi precedenti storici nell’età contemporanea – per impedire al parlamento di bloccare la Brexit senza uscita. Scenario temuto da molti che va via via concretizzandosi in quanto Johnson ha più volte ripetuto che in un modo o nell’altro, con o senza accordo, Londra uscirà dall’Ue il 31 ottobre. Tuttavia, tale scenario ricchissimo di insidie è osteggiato anche all’interno del partito conservatore, dove non tutti sono radicali come il primo ministro. Vista la probabilità che venisse presentata una mozione di sfiducia nei confronti del governo, Johnson ha sospeso la sessione parlamentare.
Non è ancora chiaro quanto durerà precisamente la sospensione: essa inizierà tra il 9 e il 12 settembre e durerà fino al 14 ottobre, quando mancheranno solo 17 giorni alla Brexit.
L’ultima sospensione parlamentare venne decisa nel 1997 dall’allora primo ministro conservatore John Major. Tuttavia, il provvedimento fu preso per motivi totalmente diversi e la sospensione non durò così tanto.
L’insolita e audace decisione di Johnson – che crea un conflitto istituzionale tra i poteri esecutivo e legislativo – è indicativa di quanto sia acuta la crisi politica che il Regno Unito sta vivendo a causa della Brexit. Una crisi che si trascina da oltre tre anni, da quel famigerato referendum del 23 giugno 2016, e che si aggrava sempre di più. E il peggio forse non è ancora arrivato.
La crisi politica infatti potrebbe forse essere il preludio alla crisi dell’integrità territoriale del Regno Unito. Detto in altri termini, la Brexit senza accordo potrebbe portare al collasso del Regno Unito per come lo conosciamo. Bisogna ben tenere a mente che Scozia e Irlanda del Nord, a differenza di Galles e soprattutto Inghilterra, votarono per il Remain. La vittoria dell’europeismo fu particolarmente netta in Scozia dove il 62 % dei votanti si espresse a favore della permanenza nell’Ue. Tutti i principali leader politici scozzesi – non solo gli indipendentisti ma anche i conservatori e i laburisti – fecero campagna per il Remain e tutt’oggi osteggiano la Brexit in qualsiasi salsa.
Alla luce di tutto ciò è interessante osservare le reazioni a caldo dei leader politici scozzesi alla decisione dell’inquilino del Numero 10 di sospendere i lavori di Westminster. La primo ministro Nicola Sturgeon – leader del Partito nazionale scozzese (Snp) il cui scopo è quello di tagliare il traguardo dell’indipendenza – ha commentato in molto duro la decisione dell’omologo britannico: “tutto ciò è scandaloso. Sospendere il parlamento per imporre una Brexit senza accordo […] non è democrazia. È dittatura”. Soprattutto, Sturgeon ha ammonito che la forzatura di Johnson per arrivare alla Brexit senza accordo potrebbe rendere “completamente inevitabile” l’indipendenza scozzese.
Un altro campanello d’allarme per Londra: la linea intransigente di Boris Johnson sulla Brexit sta rafforzando le istanze indipendentiste scozzesi. Sturgeon ha avviato da tempo l’iter per indire un secondo referendum sull’indipendenza. Il primo – tenutosi il 18 settembre 2014 – vide la vittoria degli unionisti 55 a 45.
Degne di menzione sono le dimissioni di Ruth Davidson, leader dei conservatori scozzesi, che si è dimessa dopo la decisione di Johnson di sospendere il parlamento. Ufficialmente, Davidson ha deciso di dimettersi per motivi personali. La sua priorità sarebbe quella di occuparsi del figlio nato l’anno scorso e sempre secondo la versione ufficiale era da mesi che pensava se dimettersi o meno. Tuttavia, il tempismo delle sue dimissioni non può non sollevare dubbi considerando anche che Davidson non ha mai condiviso la linea intransigente di Johnson sul divorzio dall’Ue.
Nel frattempo i laburisti scozzesi e inglesi hanno raggiunto un accordo per indire un secondo referendum sulla Brexit in futuro, qualora i laburisti andassero al governo e vi fossero le condizioni politiche sufficienti. A dimostrazione del rafforzamento del fronte del Remain.
La reazione della politica scozzese al colpo di mano di Johnson è solo l’ultimo di una serie di segnali che ci ricorda che l’integrità territoriale del Regno Unito per come lo conosciamo è la posta in gioco della Brexit senza accordo.