
Esattamente 100 anni fa, nella sala degli specchi del palazzo di Versailles, venne firmato il trattato omonimo che chiuse, in apparenza, l’apocalittica vicenda della guerra del 1914-1918, passata alla storia come Grande Guerra o Prima Guerra Mondiale per via della sua violenza e vastità inedite.
Curiosamente, il trattato venne firmato esattamente cinque anni dopo l’assassinio dell’arciduca Francesca Ferdinando a Sarajevo. Incidente che la storia ha voluto essere il casus belli di quella conflagrazione bellica che cambiò il mondo per sempre.
Il trattato di Versailles, che fu uno dei trattati che chiuse la Grande Guerra, regolava i rapporti tra le potenze vincitrici e la Germania, la più potente delle nazioni sconfitte. Marcando un elemento di discontinuità con la prassi diplomatica ottocentesca, alla conferenza di pace di Parigi non parteciparono gli sconfitti, cioè i delegati tedeschi. Spettò alle potenze vincitrici (in particolare Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia i cosiddetti Quattro Grandi) definire arbitrariamente i termini della resa, senza consultare esponenti di Berlino.
Il trattato che i delegati della repubblica tedesca dovettero firmare alla cieca fu il risultato dei lavori della suddetta conferenza di Parigi che si riunì a partire dal 18 gennaio 1919. Tali lavori procedettero a rilento, non senza difficoltà, e con plateali divergenze e tensioni tra i Quattro Grandi, che culminarono con l’abbandono del tavolo dei negoziati da parte della delegazione italiana il 24 aprile 1919.
L’abbandono italiano fu il risultato di un’inconciliabile differenza di approccio all’ordine internazionale postbellico tra gli Stati Uniti e le tre potenze vincitrici europee. Il presidente americano Woodrow Wilson voleva costruire un ordine postbellico che avesse come fondamento i suoi Quattordici Punti enunciati nel gennaio 1918. Nello specifico, per quanto riguarda il caso italiano, i nodi vennero al pettine in merito alla questione dei confini dell’Italia.
Roma rivendicava tutti i territori adriatici promessigli dalla Triplice Intesa con il trattato di Londra dell’aprile 1915. Sulla base di tale trattato il regno d’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa il mese successivo. Tra i vari territori rivendicati dall’Italia vi erano anche l’Istria, la Dalmazia e la famigerata città di Fiume (l’odierna Rijeka, in Croazia).
Il problema è che in base al Nono Punto di Wilson, le frontiere italiane postbelliche dovevano essere ridisegnate secondo chiari princìpi di nazionalità; ma alcuni territori rivendicati dall’Italia ospitavano anche consistenti popolazioni slave. L’intransigenza della delegazione italiana, l’impossibilità di giungere a un compromesso, oltre alle divergenze in merito alle rivendicazioni italiane sui territori anatolici dell’impero Ottomano, furono gli elementi che portarono all’abbandono della delegazione italiana a fine aprile – la quale farà poi ritorno alla conferenza in maggio – con Wilson che accusò Roma di essere una minaccia per la pace.
Le tensioni sulla questione dei confini italiani riflettevano una divergenza valoriale che coinvolgeva anche Gran Bretagna e Francia. Le due più grandi potenze imperialiste si mostrarono parecchio fredde nei confronti dei princìpi rivoluzionari di Wilson, in particolare per quanto riguarda il principio dell’autodeterminazione.
Mentre si mostravano cauti verso il presidente americano, il primo ministro britannico David Lloyd George e l’omologo francese Georges Clemencau discutevano di questioni coloniali, in particolare della questione siriana, che rientrava nel più ampio tema relativo alla spartizione della carcassa ottomana, premio ambito da molti, per cui si sarebbe continuato a combattere fino all’ottobre 1922.
Il tema che probabilmente divise maggiormente le grandi potenze vincitrici fu quello relativo alla “punizione” da infliggere alla Germania. I francesi erano – comprensibilmente – i più oltranzisti. Il loro scopo era quello di annullare la Germania dal punto di vista militare ed economico affinché non aggredisse mai più la Francia.
Wilson era favorevole a un trattamento equo, poiché per funzionare il nuovo ordine necessitava di una pace senza vinti né vincitori, per non creare dissapori e risentimenti. Lloyd George era allineato con Wilson. Egli voleva che sul continente ci fosse un equilibrio di potenza, pertanto una Francia troppo forte non doveva prevalere su una Germania troppo debole.
Inoltre, la Germania doveva essere sufficientemente forte per far fronte a un’eventuale orda bolscevica proveniente da est e per reprimere tentativi rivoluzionari analoghi al suo interno, come l’insurrezione spartachista del gennaio 1919 o la breve esperienza della Repubblica dei Consigli di Baviera, nata e morta nell’aprile dello stesso anno.
Il trattato di Versailles fu una pace punitiva che impose alla Germania la perdita di territori strategici, la smilitarizzazione delle forze armate e il pagamento di riparazioni salate. Come se tutto quanto detto finora non bastasse – da ricordare il divieto dei delegati tedeschi di partecipare ai negoziati – la Germania fu costretta a sottoscrivere l’umiliante Articolo 231. Esso recitava:
“I Governi Alleati e Associati, dichiarano, e la Germania riconosce, che la Germania e i suoi alleati sono responsabili, per esserne la causa, di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai Governi Alleati e Associati e dai loro cittadini in conseguenza della guerra che è stata loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”.
La pace punitiva di Versailles gettò benzina sul fuoco del risentimento dei nazionalisti tedeschi. Questi ultimi già consideravano l’esito della Grande Guerra una non sconfitta, poiché le forze armate tedesche non vennero distrutte in battaglia bensì costrette ad arrendersi dall’armistizio siglato dal nuovo governo socialdemocratico subentrato al Kaiser (la famosa leggenda della pugnalata alle spalle).
Oltre al danno ci fu quindi anche l’umiliazione di dover subire una pace punitiva che danneggiava gravemente una Germania già prostrata dalla guerra e dalla fame. Revisionare il sistema iniquo di Versailles fu il principale obiettivo politico dei nazionalisti tedeschi. Uno di questi si chiamava Adolf Hitler.
La conferenza di pace di Parigi e il conseguente trattato di Versailles portavano con sé tutti i germi di un ordine internazionale instabile e privo di legittimazione. A partire dall’esclusione dalle trattative degli sconfitti, passando per le profonde divergenze tra le grandi potenze vincitrici su numerosi aspetti cruciali, per tacere dell’assenza della Russia causa guerra civile in corso.
A prescindere dall’esito di tale guerra, la Russia sarebbe tornata ad essere un attore cruciale della politica internazionale in un contesto a lei totalmente estraneo. Germania e Russia – in quanto potenze accomunate dall’essere state escluse dalla costruzione dell’ordine internazionale postbellico – avrebbero potuto avanzare pretese revisioniste e cercare un’intesa per spezzare l’isolamento diplomatico. Cosa che avvenne nell’aprile 1922 con il trattato di Rapallo.
Pure l’Italia, essendo rammaricata per la vittoria mutilata, si sarebbe potuta configurare come potenza revisionista se i nazionalisti avessero preso il sopravvento.
Infine, e soprattutto, la mancata ratifica del trattato di Versailles e dello statuto della Società delle Nazioni da parte del senato americano decretarono la plateale delegittimazione del nuovo ordine internazionale da parte del suo principale architetto.
Il rispetto di tale ordine ricadeva ora su Francia e Gran Bretagna, potenze riluttanti, che iniziavano a diffidare l’una dell’altra, e i cui principali obiettivi erano il perseguimento degli interessi coloniali e la stabilizzazione di un fronte interno in grave crisi dopo lo shock economico, sociale e demografico della Grande Guerra, su cui aleggiava lo spettro della rivoluzione bolscevica.
Nell’autunno 1919 l’ordine di Versailles sembrava già morto. Eppure sarebbe sopravvissuto per vent’anni esatti, con fortune sempre decrescenti, quando l’Europa precipitò in un abisso ancora più profondo di quello del 1914.