Michele Chiaruzzi è docente di Relazioni internazionali e Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. È ambasciatore della Repubblica di San Marino in Bosnia-Erzegovina e ha svolto incarichi di didattica e di ricerca in tre continenti, dall’Australia al Canada, passando per il Regno Unito. In questa intervista abbiamo parlato con lui di alcune questioni centrali dell’attualità politica internazionale.
Buongiorno prof. Chiaruzzi, iniziamo parlando della Belt and Road Iniative (Bri) del governo cinese. L’Italia è stato il primo paese del G7 ad aderire a tale iniziativa. L’adesione italiana ha suscitato una reazione da parte di alcuni funzionari dell’amministrazione americana, i quali hanno criticato pubblicamente la decisione di Roma. Detto ciò, secondo lei gli Stati Uniti potrebbero opporsi a eventuali investimenti strategici cinesi in Italia? Magari minacciando un aumento dei dazi?
La risposta a questa domanda dipende da come si approcceranno le future amministrazioni americane all’ascesa cinese. Le amministrazioni – comprese quelle americane – cambiano, e con loro la strategia di politica estera. Infatti, dal punto di vista economico, la precedente amministrazione si è rapportata alla Cina in modo diverso da quella attuale. Ad ogni modo, se Trump verrà rieletto o se la prossima amministrazione avrà una politica estera analoga, indubbiamente gli Stati Uniti si opporranno a investimenti strategici cinesi non solo in Italia ma nell’Unione Europea in generale. Nei fatti ciò sta già avvenendo. Il punto di partenza della politica estera dell’amministrazione Trump – come quello di qualsiasi altra amministrazione americana – è il mantenimento della posizione predominante degli Stati Uniti nel sistema internazionale. Per Trump il mantenimento di tale posizione predominante passa attraverso l’opposizione agli investimenti cinesi in Europa. Il fatto da notare è che Trump, a differenza dei suoi predecessori, per mantenere il primato americano, ha adottato un atteggiamento ostile nei confronti degli alleati europei. Se questi ultimi si mettono poi a fare affari con i cinesi l’ostilità non può che aumentare.
La seconda domanda riguarda la Libia. Esattamente due mesi fa la situazione nel paese è degenerata, con il feldmaresciallo Haftar che ha lanciato un’offensiva per conquistare Tripoli. Secondo lei, dato lo stato attuale delle cose, è possibile che ci sia una ripresa del dialogo finalizzata al raggiungimento di un accordo politico oppure la parola è passata definitivamente alle armi?
È difficile fare proiezioni sul futuro quando si parla di guerra. Il punto è che si era trovato un accordo politico, ovvero l’instaurazione di un governo riconosciuto a livello internazionale su cui avrebbero dovuto gravitare gli interessi delle potenze esterne, cioè le potenze mediorientali, le potenze europee, gli Stati Uniti e la Russia. Quell’accordo politico è già franato, pertanto si è passati alle armi. A questo punto tornare a un accordo politico non è per nulla semplice. Per far sì che ciò accada vi dovrebbe essere innanzitutto un accordo tra le potenze esterne alla Libia. Ciò non è possibile perché alcune sostengono il governo di al-Sarraj, altre sostengono Haftar. L’esaurimento della guerra che attualmente si sta combattendo in Libia può avvenire in due modi: lo stallo; l’imposizione di una fazione sull’altra. Ora in Libia c’è uno stallo grossomodo, con i miliziani di Haftar bloccati alla periferia di Tripoli. Nessuna fazione riesce a prevalere sull’altra. Ma come la situazione evolverà in futuro non è dato saperlo al momento.
Passiamo al Medio Oriente. Nelle ultime settimane c’è stato un innalzamento della tensione tra Stati Uniti ed Iran. Gli americani hanno inviato nella regione mezzi, equipaggiamenti militari e soldati in segno di avvertimento mentre Washington e Teheran si sono minacciate a vicenda. Secondo lei, con l’attuale amministrazione americana, è possibile che la tensione prima o poi degeneri nello scontro bellico o è più probabile che si giunga a un accordo come nel 2015?
La situazione è molto complessa. Quando si passa dalle parole – le minacce – a un pò di fatti concreti – l’invio di mezzi, equipaggiamenti e soldati – in una regione così instabile e attraversata da conflitti come il Medio Oriente, è facile che ci siano effetti non intenzionali. Potrebbero accadere incidenti casuali che trascendono dalla volontà degli attori. Oppure potrebbero esserci incidenti generati dalla volontà di attori terzi, come gruppi armati non riconducibili agli Stati, che hanno interesse a far degenerare la situazione. L’antagonismo tra Stati Uniti ed Iran è una logica conseguenza della politica estera dell’attuale amministrazione, che ha deciso di allinearsi incondizionatamente ad Israele e all’Arabia Saudita, Stati che percepiscono Teheran come minaccia esistenziale. Gli Stati Uniti hanno chiaramente deciso di investire le loro risorse strategiche non nella mediazione bensì nell’alleanza con Israele e Arabia Saudita. L’invio di truppe e mezzi nella regione è una logica conseguenza della decisione di rassicurare gli alleati. Ad ogni modo ciò non significa che ci sia un piano di guerra, anche perché sia l’Iran che gli Stati Uniti hanno più volte detto che non hanno interesse a scatenare una guerra adesso. Anzi, sembra che gli Stati Uniti abbiano inviato le forze armate per costringere l’Iran ad aprire un nuovo negoziato.
Parliamo ora dello Yemen, un paese che da oltre quattro anni è devastato da una terribile guerra che ha causato decine di migliaia (forse addirittura centinaia di migliaia) di morti e la più grave crisi umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ciononostante la guerra dello Yemen è quasi totalmente assente dai mezzi d’informazione (clicca qui per vedere i nostri articoli sulla guerra dello Yemen). Come se la spiega questa carenza?
Io della crisi yemenita scrivo sulla Treccani praticamente dagli albori e condivido totalmente quello che lei ha detto. La copertura mediatica in Italia è quasi assente. Una carenza ingiustificabile considerando la gravità della situazione nello Yemen. In Europa e nel mondo le cose stanno un pò diversamente ed è più seguita. Una delle ragioni per cui la copertura mediatica di questa guerra è scarsa ha a che fare con il pesante coinvolgimento dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, nazioni in stretti rapporti con l’Occidente che sono intervenute militarmente fin dallo scoppio della guerra civile. Siccome americani ed europei vendono armi sia a Riad che ad Abu Dhabi, in questa guerra sono coinvolti un pò tutti. Poi lo Yemen non è così ricco di risorse, in particolare di petrolio, come altri paesi della regione. Inoltre, non bisogna dimenticare che la presenza di giornalisti sul campo è molto scarsa. Ciò è dovuto al fatto che da un punto di vista operativo per giornalisti e reporter lavorare nello Yemen è letale. La capitale Sana’a è spesso bersaglio di bombardamenti indiscriminati eseguiti con bombe a grappolo. La guerra nello Yemen è molto sporca, vede la presenza di numerosi gruppi armati irregolari ed è combattuta senza regole e senza il minimo riguardo per la condizione dei civili. In un contesto sregolato come quello yemenita i giornalisti e i reporter rischiano costantemente la vita e non sono minimamente tutelati dalle regole d’ingaggio. C’è proprio una carenza di giornalisti sul campo.
Sauditi ed emiratini sono intervenuti da subito nello Yemen con bombardamenti che hanno causato migliaia di morti tra i civili. Secondo lei condannare pubblicamente i bombardamenti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti oppure smettere di vendergli armi potrebbe spingere questi paesi a disimpegnarsi dallo Yemen? Soprattutto, esistono paesi che sarebbero disposti a fare ciò?
La risposta alla seconda domanda è empirica. Sì, esistono paesi disposti a cessare la vendita di armamenti ad Arabia Saudita ed Emirati. La Germania è uno di questi. Però se è solo uno che smette di vendere armi ci sarà qualcun’altro che continuerà a farlo. Cessando la vendita di armi la Germania ha esercitato una forma di pressione ma per essere efficace la pressione deve essere accompagnata da un processo diplomatico che permetta alle potenze coinvolte, Riad ed Abu Dhabi in questo caso, di trovare una garanzia per la propria sicurezza in altro modo. Bisogna offrire spazi diplomatici di conciliazione che offrano la possibilità di mettere fine al circolo vizioso della guerra. La guerra è in corso da più di quattro anni, non quattro giorni. Siamo di fronte a una nuova Siria. Pertanto cessare la vendita di armi o fare condanne pubbliche è inutile. Le forme di pressione per essere efficaci – cioè per portare alla fine della guerra – devono passare attraverso canali diplomatici e devono garantire la sicurezza di tutti.
Concludiamo parlando della guerra civile siriana. Secondo lei qual è la principale eredità di questa lunga e sanguinosa guerra?
La guerra di Siria ci lascia tante eredità, non solo una. L’eredità più palese è la morte violenta di centinaia di migliaia di persone, di cui una buona parte civili inermi. Questa guerra ha causato la distruzione di un paese meraviglioso che ospitava siti culturali molto importanti e ha destabilizzato uno Stato cardinale per gli equilibri e la sicurezza della regione e in particolare dei paesi confinanti. Una maggiore insicurezza per tutti gli attori regionali, questa è un’altra eredità importante di questa terribile guerra che ha generato milioni di profughi. Ci sono almeno altre tre eredità molto significative: l’annichilimento del progetto territoriale di Daesh; la riaffermazione della sfera d’influenza russa nel paese, e quindi nel Mediterraneo orientale, e la proiezione della capacità strategica iraniana fino ai confini di Israele. L’Iran già esercitava la sua influenza ai confini di Israele attraverso Hezbollah, in Libano, ma ora grazie all’intervento a fianco di al-Assad ha rafforzato la sua presenza anche in Siria, motivo per cui mai come ora Israele percepisce Teheran come minaccia esistenziale. La guerra civile siriana ha ridefinito le sfere d’influenza nella regione a vantaggio di Russia ed Iran e ha portato all’annichilimento, dal punto di vista territoriale, di un’organizzazione terroristica che nel corso di questo decennio ha sconvolto non solo il Medio Oriente ma anche l’Europa, si pensi agli attentati terroristici in Francia e Belgio ad esempio.