Ieri sera la Camera dei Comuni ha approvato un emendamento con cui si è dichiarata favorevole al rinvio della Brexit. L’emendamento ha incassato 413 voti favorevoli e 202 contrari – una maggioranza di ben 211 voti. Ora spetterà al governo concordare con l’Unione Europea una data precisa per il rinvio.
È stata una settimana densa di impegni cruciali per il parlamento britannico. Martedì sera si è tenuta la votazione che ha sancito, per la seconda volta in meno di due mesi, l’affondamento, a larga maggioranza, dell’accordo negoziato dal governo con la Commissione Europea. A nulla sono servite le modifiche legalmente vincolanti sul backstop che la Commissione aveva concesso al governo britannico il giorno prima. Poi, mercoledì sera, il parlamento ha espresso la sua opposizione a una Brexit senza accordo, opzione che la premier Theresa May ha sempre considerato plausibile nel caso in cui il suo accordo fosse stato respinto.
L’emendamento approvato ieri sera prevede che se il parlamento approverà il piano per la Brexit entro il 20 marzo ci sarà un breve periodo di transizione che durerà fino al 30 giugno. In caso contrario l’estensione della Brexit dovrà essere prolungata ulteriormente.
Si prospetta quindi uno scenario paradossale: se il parlamento non approverà l’accordo, i cittadini britannici saranno chiamati alle urne per partecipare alle elezioni europee del prossimo maggio. Una situazione ridicola frutto di un processo politico rocambolesco che sta creando un’impasse senza precedenti in Gran Bretagna, paese che è sempre stato simbolo della stabilità politica. La Brexit è un rompicapo la cui soluzione si sta rivelando molto più difficile di quanto i fautori del Leave pensassero. I cittadini potrebbero essere chiamati ad eleggere i loro rappresentanti al Parlamento Europeo proprio quando il paese intero è paralizzato nel tentativo di abbandonare l’Unione. Quale sarebbe il mandato dei parlamentari britannici? Soprattutto, quali sarebbero i temi di una campagna elettorale così tanto paradossale? Ad ogni modo, finché Westminster non approva un accordo la delegazione di europarlamentari britannici deve, giustamente, sedere nell’emiciclo di Strasburgo, nel rispetto dell’irrinunciabile principio democratico per cui ciascuno Stato membro deve avere i suoi rappresentanti in parlamento.
Ieri, prima di approvare l’emendamento che ha chiesto l’estensione dell’articolo 50, la Camera dei Comuni ha votato anche un emendamento relativo al controverso secondo referendum. L’ipotesi di tenere una seconda consultazione popolare è stata ampiamente respinta dalla Camera, con i parlamentari laburisti che si sono astenuti.
Probabilmente, nei prossimi giorni assisteremo alla ripetizione dello schema che abbiamo già osservato all’inizio di questa settimana. May si dirigerà nuovamente a Bruxelles per ottenere ulteriori concessioni dalla Commissione in vista del voto cruciale di mercoledì prossimo, che sarà l’ultima spiaggia per la Brexit entro il 29 marzo. A meno che la Commissione non faccia concessioni eclatanti in grado di far cambiare idea agli hard brexiteers del partito conservatore, l’accordo verrà bocciato per la terza volta.
Mai come ora le probabilità di un rinvio della Brexit sono state così alte mentre lo scenario di un no deal sembra, almeno per ora, scongiurato.
Da notare come la votazione dell’emendamento relativo all’estensione dell’articolo 50 abbia mostrato ancora una volta la frattura interna al partito conservatore in merito alla Brexit. Solo 112 parlamentari conservatori hanno votato a favore mentre la maggior parte dei tories (188 voti) si è detta contraria. La maggioranza dei voti favorevoli all’estensione della Brexit è stata espressa dai parlamentari laburisti (236 voti su 403) i quali, se si escludono tre parlamentari che hanno votato contro, si sono dimostrati uniti. Da notare anche che il Partito Nazionale Scozzese (Snp), da sempre favorevole al Remain, ha votato in blocco a favore dell’estensione (35 voti).
Ad ogni modo, al di là degli emendamenti votati dal parlamento britannico, l’ultima parola sul posticipo della Brexit spetterà al Consiglio Europeo, cioè la riunione formale dei capi di governo dei 27 paesi membri dell’Ue. “Durante le mie consultazioni prima del Consiglio europeo, chiederò ai 27 capi di governo dell’Ue di essere aperti per un’estensione lunga se il Regno Unito troverà necessario ripensare la propria strategia sulla Brexit e per costruire il consenso attorno a questa” ha scritto ieri in un post sul suo account Twitter il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Le istituzioni europee, pur di scongiurare una Brexit senza accordo, sembrano disposte a posticiparne la data, sebbene ciò potrebbe comportare la paradossale partecipazione dei cittadini britannici alle elezioni europee del prossimo maggio.
Il punto della questione però non è rinvio sì o rinvio no ma rinvio per che cosa. I presidenti della Commissione e del Consiglio Europeo, insieme a diversi capi di governo dei paesi membri, hanno più volte affermato che le trattative non verranno riaperte. L’accordo di uscita siglato dal governo britannico e dai 27 Stati membri quello è e quello rimarrà. Per il Regno Unito i margini per ottenere cambiamenti significativi sono molto stretti. La premier May potrà ottenere al massimo altre concessioni su questioni specifiche ma non una rinegoziazione complessiva. A che serve quindi posticipare la Brexit se il cuore dell’accordo non verrà, giustamente, cambiato? A meno che ulteriori concessioni non riescano a convincere i conservatori euroscettici, posticipare la Brexit significa prolungare lo stallo che da mesi sta bloccando la politica britannica e il paese intero.
Gli hard brexiteers del partito conservatore dovrebbero accettare il fatto compiuto: l’accordo di uscita non verrà modificato in modo sostanziale. Come è giusto che sia. Poiché in questa faccenda il maggior potere negoziale è nelle mani dell’Unione Europea e i parlamentari conservatori britannici non hanno alcuna possibilità, né alcun diritto, di imporre la riapertura dei negoziati facendo valere la propria volontà su quella di 27 Stati. Evidentemente mettere una sostenitrice del Remain a capo dell’esecutivo che doveva negoziare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue non è stata una buona idea.