All’inizio degli anni Novanta, il collasso dell’impero sovietico riflesse l’illusione di un sistema internazionale unipolare e privo di focolai d’instabilità, dominato dall’unica superpotenza globale, gli Stati Uniti. Il mondo dopo oltre quarant’anni di guerra fredda sarebbe stato caratterizzato dall’inesorabile ed inevitabile affermazione planetaria della democrazia e del liberalismo, che si accompagnava ad un processo di globalizzazione che avrebbe unito il mondo intero grazie ad Internet e allo scambio di informazioni e merci da una parte all’altra del globo ad una velocità senza precedenti. La sconfitta del socialismo rendeva inevitabile la diffusione della liberaldemocrazia rappresentativa, che risaltava come forma migliore di organizzazione politica dell’umanità. Diffusione mondiale della liberaldemocrazia e globalizzazione erano i due pilastri su cui poggiava l’ottimismo degli anni Novanta.
Ottimismo di cui si fece fiero portatore il presidente americano Bill Clinton il quale, durante il secondo discorso inaugurale pronunciato il 20 gennaio 1997, dichiarò apertamente la sua fiducia nella democrazia affermando che nel nuovo secolo “la più grande democrazia del mondo (gli Stati Uniti, nda) guiderà un mondo intero di democrazie”. Clinton aveva una visione molto ottimista del suo tempo e del futuro e fece di tutto affinché gli Stati Uniti guidassero il mondo verso la globalizzazione da cui tutti teoricamente avrebbero dovuto trarre immensi ed inediti vantaggi. Durante la sua amministrazione venne firmato il Nafta, il trattato che istituiva la zona di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico (1993) e venne fondato il Wto, ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio (1995). Multilateralismo, libero commercio e rispetto dei diritti umani furono le parole chiave della politica estera di Clinton. Egli nel 1997 firmò il protocollo di Kyoto (che tuttavia non venne ratificato dal Congresso) e si propose come mediatore nel conflitto tra israeliani e palestinesi mentre nel 1999 decise di intervenire militarmente contro la Serbia per mettere fine alla pulizia etnica nel Kosovo, senza tuttavia ricevere l’autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Con gli anni Duemila il mito del sistema internazionale stabile e unipolare dominato dagli Stati Uniti crollò traumaticamente insieme alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York. Gli attentati dell’11 settembre 2001 dimostrarono che la superpotenza non era intoccabile e il sistema internazionale era tutto meno che stabile. La proclamazione della guerra al terrore (global war on terror) e le avventure militari guidate dagli americani in Afghanistan ed Iraq delegittimarono gli Stati Uniti nel loro ruolo di autoproclamati paladini della democrazia, della libertà e dei diritti umani. La tutela di questi ultimi venne accantonata in nome della sicurezza nazionale mentre la narrazione dell’esportazione della democrazia si rivelò una mal congegnata maschera per tentare di coprire gli interessi nazionali che furono alla base dell’invasione dell’Iraq. Gli Stati Uniti mentirono di fronte alle Nazioni Unite e si fecero beffa dei diritti umani nella prigione di Abu Ghabir e nella base militare di Guantanamo.
La figuraccia degli Stati Uniti fu resa più umiliante dal fatto che le guerre in Iraq ed Afghanistan si rivelarono dei pantani da cui fu molto difficile uscire. Questi interventi militari in cui vennero impiegati centinaia di migliaia di soldati sul campo (boots on the ground) crearono molti più problemi di quanti ne risolsero. Saddam Hussein e il regime dei talebani caddero nel giro di poche settimane ma il crollo dello Stato e l’occupazione straniera gettarono Iraq e Afghanistan in un caos totale che persiste ancora oggi. Gli americani lasciarono l’Iraq nel dicembre 2011 durante l’amministrazione Obama, abbandonando il paese all’anarchia generata dalle lotte settarie e dall’occupazione, che fu il presupposto per l’affermazione dello Stato Islamico (Isis) nel nord del paese. In Afghanistan invece, gli americani sono ancora in ballo dopo più di diciassette anni. Si tratta della guerra più lunga della storia degli Stati Uniti, i quali hanno implicitamente ammesso la sconfitta scendendo a patti con i talebani. Di fatto gli americani hanno perso sia in Iraq che in Afghanistan.
Gli Stati Uniti furono ulteriormente delegittimati nel loro ruolo di paladini dei diritti umani quando il presidente democratico Barack Obama lasciò che il presidente siriano Bashar Al-Assad superasse impunemente la cosiddetta “linea rossa” da lui stesso tracciata e rappresentata dall’uso di armi chimiche. Il 20 agosto 2012 Obama avvertì il regime siriano che l’utilizzo di armi chimiche era la linea rossa che, se superata, avrebbe potuto causare un intervento militare americano.Tuttavia, l’anno seguente Assad utilizzò le armi chimiche contro la popolazione civile senza che gli Stati Uniti intervenissero. Washington tentò allora di recuperare il proprio prestigio internazionale organizzando nel 2014 una coalizione composta da decine di paesi per schiacciare la minaccia sempre più grave dello Stato Islamico, ovvero una conseguenza dello scellerato interventismo americano in Iraq del decennio precedente.
Se gli attentati dell’11 settembre 2001 dimostrarono la fragilità del sistema internazionale post guerra fredda, le avventure militari degli anni Duemila hanno destabilizzato Afghanistan, Iraq e l’intero Medio Oriente e hanno intaccato il prestigio internazionale di Washington come non accadeva dai tempi della guerra del Vietnam. La narrazione degli Stati Uniti come difensori della democrazia e dei diritti umani ha dimostrato tutta la sua inconsistenza di fronte alla scelta ragionata di perseguire un interesse nazionale che era in aperta contraddizione con i valori che l’America proclamava di voler difendere nell’arena internazionale dopo la fine della guerra fredda.
Ciononostante, anche quando hanno agito in contraddizione con i valori di cui si facevano portatori a parole, gli Stati Uniti hanno sempre operato in un contesto multilaterale. In Afghanistan, in Iraq e nella lotta allo Stato Islamico, l’America si è sempre posta alla testa di coalizioni formate da numerosi paesi. Da Clinton a Obama, gli Stati Uniti non hanno mai fatto mancare il loro sostegno al commercio internazionale, al libero scambio di merci e servizi e alle istituzioni internazionali che li regolavano. Il minimo comune denominatore delle amministrazioni americane post guerra fredda è stata la coerenza con il principio del multilateralismo, che non è affatto sinonimo di rispetto del diritto internazionale.
E poi è arrivato Donald Trump.
L’attuale presidente americano ha fatto ciò che i suoi tre predecessori non hanno mai osato fare. Rinnegare apertamente il multilateralismo e la cooperazione internazionale, e fare dell’unilateralismo la modalità d’azione preferita in politica estera. E così mentre Clinton faceva da mediatore tra israeliani e palestinesi, Trump ha deciso unilateralmente di trasferire l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, innescando una nuova intifada. Mentre Clinton firmava con convinzione il Nafta, Trump l’ha criticato apertamente e ha costretto i vicini a rinegoziarlo. Allo stesso modo, mentre Obama acconsentiva all’ingresso degli Stati Uniti nel Tpp (l’accordo di libero scambio tra numerosi paesi americani e asiatici che si affacciano sull’oceano Pacifico, nda) la prima decisione che Trump prese fu quella di uscirvi. L’attuale presidente americano ha deciso anche, sempre in modo unilaterale, di ritirarsi dall’accordo di Parigi sul clima del 2015, dall’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) sempre del 2015, dal comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite e ha più volte criticato il Wto. Da non dimenticare ovviamente l’imposizione di alti dazi doganali non solo alla rivale Cina ma anche agli alleati Giappone, Corea del Sud ed Unione Europea. Trump ha deciso di ritirare le truppe dalla Siria e dall’Afghanistan senza consultare gli alleati né i funzionari competenti della sua amministrazione ed infine, per ora, ha ritirato gli Stati Uniti dal trattato Inf sui missili a media gittata perché questo non vincolava in alcun modo la Cina, vera rivale degli Stati Uniti.
Se è vero che le guerre degli anni Duemila hanno inflitto un durissimo colpo alla credibilità degli Stati Uniti, l’inedito unilateralismo di Trump l’ha affossato. George W. Bush delegittimò l’immagine degli Stati Uniti come esportatori di libertà e democrazia e protettori dei diritti umani, ma non si sognò mai nemmeno per un momento di mettere in discussione pubblicamente i pilastri dell’ordine internazionale post guerra fredda che gli stessi Stati Uniti avevano eretto. A partire dalla cooperazione internazionale in materia economico-commerciale, da cui derivarono il Nafta e il Wto. Trump è pure riuscito a gettare il seme della diffidenza nei rapporti con gli storici alleati europei, minacciando di imporre dazi molto alti sulle importazioni di automobili e chiedendo con arroganza di contribuire maggiormente al bilancio della Nato.
Paradossalmente, con Trump alla Casa Bianca gli Stati Uniti hanno assunto le strane sembianze della superpotenza che vuole revisionare ciò che essa ha creato. Incrinando i rapporti con gli alleati europei e adottando una postura perennemente scettica nei confronti delle organizzazioni internazionali, Trump non solo agisce in profonda discontinuità con l’operato dei suoi tre predecessori, ma mette in discussione i pilastri principali dell’ordine internazionale sorto al termine della Seconda Guerra Mondiale che fu modellato proprio dagli Stati Uniti.
Le invasioni militari di Afghanistan ed Iraq non furono autorizzate dalle Nazioni Unite ma George W. Bush non fece dello scetticismo nei confronti di questa ed altre organizzazioni internazionali uno degli elementi più caratteristici della sua politica estera. Così come non minacciò pubblicamente gravi ritorsioni nei confronti degli europei se non lo avessero seguito nelle sue sciagurate avventure in Medio Oriente.
Il paradossale revisionismo trumpiano aggrava ulteriormente la salute di un ordine internazionale già in condizioni precarie. Forse Trump crede che i vincoli dell’ordine internazionale creato dagli stessi Stati Uniti abbiano finora impedito al paese di affrontare efficacemente la più urgente delle sfide: contenere le ambizioni della potenza emergente del XXI secolo, l’unica che potrebbe avere i mezzi per mettere in discussione l’egemonia globale a stelle e strisce. La Cina del presidente Xi Jinping.