
Che Donald Trump fosse un politico fuori dagli schemi lo si era capito da tanto tempo, già dai primi attimi della campagna elettorale per le presidenziali del 2016. Il tycoon è un personaggio eccentrico per i suoi modi, per il suo linguaggio, per il suo sconfinato ego, nonché per i numerosi scandali anche a sfondo sessuale che lo hanno visto protagonista in passato e che lo hanno fatto diventare bersaglio di dure critiche da parte della stampa e dell’opinione pubblica americana e mondiale. Ciononostante Trump è riuscito a conquistare la poltrona su cui siede il leader politico più influente ed importante del mondo.
Una volta insediatosi alla Casa Bianca, The Donald non ha abbandonato lo stile che lo aveva contraddistinto in campagna elettorale e ha tradotto la sua stravaganza nelle politiche che ha adottato, specialmente negli affari esteri. Discontinuità con il passato recente andando controcorrente nonostante la contrarietà di tutti gli altri, alleati compresi. Ecco la caratteristica che più di tutte definisce questo primo anno e mezzo di presidenza Trump.
Populista, sovranista, protezionista oppure semplicemente e tautologicamente trumpiano. Le etichette che sono state affibbiate al presidente americano sono numerose ma certamente l’andare controcorrente è l’elemento che più di tutti ha caratterizzato la sua politica estera.
Tra i primissimi provvedimenti attuati dal tycoon vi fu lo stralcio del Ttp, l’accordo commerciale transpacifico voluto da Obama che avrebbe dovuto unire in una grande area di libero scambio le due sponde del più grande oceano del pianeta, Cina esclusa, ovviamente. Questo fu il primo di una serie di schiaffi che il presidente americano avrebbe rifilato alla globalizzazione e alla libera circolazione delle merci. Tutte cose molto brutte che al suo elettorato non piacciono.
In seguito venne il ritiro americano dall’accordo sul clima di Parigi del 2015 a cui fece da corollario il tentativo di salvare l’industria americana del carbone. D’altro canto cosa ci si poteva aspettare da una persona che ha definito il riscaldamento globale “a very expensive bullshit”?
E poi fu la volta dello spostamento dell’ambasciata americana d’Israele a Gerusalemme, decisione unilaterale presa nell’autunno 2017 per rendere felici il suo elettorato più conservatore e gli amici israeliani. Il fatto che questa decisione abbia fatto precipitare la perennemente fragile situazione in Palestina è totalmente irrilevante per Trump. L’ambasciata americana in Città Santa venne inaugurata dalla figlia Ivanka e dal genero Jared Kushner nel maggio scorso mentre a poche decine di chilometri di distanza i civili palestinesi asserragliati in quella “prigione a cielo aperto” che è Gaza venivano brutalmente uccisi dall’esercito dello Stato ebraico. Altro fatto irrilevante, perché quelli secondo l’amministrazione americana erano “tutti terroristi”.
Il presidente non ci mise molto a schierare in campo il suo cavallo di battaglia, l’emblema della dottrina America First, il simbolo del neo-protezionismo finalizzato a ridare dignità agli operai bianchi disillusi del Midwest che lo votarono in massa nel 2016. La guerra commerciale scatenata da Trump a suon di dazi si sta svolgendo su due fronti. Quello asiatico, dove gli Stati Uniti vogliono colpire la Cina, superpotenza nascente, unica nazione al mondo in grado di poter insidiare l’egemonia globale statunitense e quindi nemico principale nella guerra dei dazi. Ma su questo fronte Trump non ha risparmiato nemmeno Corea del Sud e Giappone. Poi c’è il fronte europeo dove il tycoon colpisce duro l’Unione Europea. Qui il bersaglio primario è la Germania di Merkel. Con la Commissione Europea è stata pattuita una momentanea tregua, sancita dall’incontro alla Casa Bianca tra Juncker e Trump, che ha evitato l’imposizione di dazi sull’importazione delle automobili europee…per ora.
Infine, Trump decise il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano del 2015 di cui il governo americano fu lo sponsor principale. Anche questa operazione diplomatica fu orchestrata da Obama il quale tentò di normalizzare i rapporti, tesi da decenni, tra America ed Iran.
Tutto questo per dire che la decisione presa pochi giorni fa dal presidente americano di rinnovare le sanzioni contro l’Iran non è altro che l’ennesima dimostrazione del modus operandi da lui adottato in politica estera. Prendere provvedimenti osteggiati dalla comunità internazionale e pure dai più longevi alleati, i quali a volte sono addirittura bersagli dell’amministrazione americana, in forza del ruolo di unica superpotenza egemone ricoperto in questo momento storico dagli Stati Uniti.
L’imposizione delle nuove sanzioni contro Teheran è stata infatti criticata da Regno Unito, Francia e Germania, oltre che dalla Russia, paesi che furono tra i firmatari dell’accordo del 2015. Ma al presidente americano ciò non interessa. Lui deve andare per la sua strada, a prescindere dal fatto che le sue decisioni mandino in collera gli alleati oppure vanifichino gli sforzi fatti in passato per pacificare le relazioni con gli avversari. Ancora una volta, Trump è contro tutti.