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La caccia come specchio della società

| 3 Luglio 2018 | CULTURA, IL FORMAT

Misurare le reazioni sociali a un dato input è un ottimo modo per capire che con che tipo di approccio ci si rapporta a certe tematiche sociali sommerse. Senz’altro, viste le reazioni dirompenti, la caccia è un ottimo input cercare di capire le contraddizioni del nostro contesto.

Sulla caccia, una cosa è sicura: sempre più persone in Italia si dichiarano contrari a questa pratica ancestrale.

La caccia diventò obsoleta già il secolo scorso non riuscendo a tenere neanche lontanamente la stessa efficacia degli allevamenti intensivi.

Ultimamente però la lenta scomparsa della caccia sta assumendo un nuovo carattere: infatti mai prima d’ora si era vista una netta avversione collettiva nei suoi confronti. Se prima il suo ridimensionamento era dovuto a fattori strutturali-economici, oggi la caccia e minacciata da motivi ideologici.

Ma cosa c’entra la società con la caccia? Come può la caccia aiutarci a capire la società in cui viviamo?

La caccia è una delle tante manifestazioni di violenza e la violenza (come il sesso) è una delle primarie pulsioni necessarie per la sopravvivenza di qualsiasi organismo vivente.

Queste due pulsioni animano l’uomo e di riflesso, anche la società, la quale si trova fin dalle sue fondamenta a dover gestire i comportamenti inerenti la violenza (gli ambiti su cui c’è sempre stata una qualche forma di legislazione stabile nel tempo sono appunto volti a disciplinare il sesso e la violenza).

Ed è proprio sulla violenza che molti aspetti reconditi del comportamento sociale, all’apice delle proprie contraddizioni, trovano una lente di ingrandimento.

La caccia può far da catalizzatore per farci meglio comprendere quali sono le nevrosi e le contraddizioni del nostro tempo.

Se dunque l’input è la caccia, l’output è certamente la reazione di sdegno.

Infatti, desta orrore vedere un felice e vivace coniglietto, essere trafitto da un proiettile e schizzare sangue mentre i suoi occhi diventano sempre più opachi mentre il cuore smette di battere.
Fa un certo senso vedere una misteriosa alce o una maestosa balena essere trascinate e sbudellate.

Tuttavia non fa alcuna impressione entrare in un super-mercato.

Anzi, ci entriamo tutte le settimane fin da bambini e il momento più bello arriva quando si chiede cosa si voglia mangiare per secondo e i bambini indicano felici le crocchette impanate. Sì! Proprio quelle splendide crocchette croccanti, così dorate e con quel sapore, quell’aroma e soprattutto con quella bellissima confezione con una fattoria stampata sopra.

Non fa ribrezzo mangiare un uovo al mattino.
Non fa ribrezzo bere un bicchiere di latte e nessuno sviene dall’indignazione quando si mette un po’ di Parmigiano sulla pasta.

Eppure quelle crocchette in realtà erano polli, nati e cresciuti in prigionia, uccisi a bastonate dopo una vita di sporcizia, medicine e alimentazione forzata.
Quelle uova sono state possibili perché tutti i pulcini maschi della produzione sono stati tritati vivi e finiti nelle scatolette di cibo per gatti.
Il latte è stato possibile solo perché una vacca è stata ripetutamente messa artificialmente incinta per produrre latte e il vitello, a cui dovrebbe essere destinato il latte, le viene tolto già nei primi giorni di vita.

Questo distaccamento dalla realtà lo trovo particolarmente annebbiante e pericoloso: non è infatti fonte di orrore una industria della carne, poiché quella non si vede e cambia nome alle cose: un pollo morto non è più un pollo morto ma è una crocchetta, ed ecco tutti allegri a tavola. Ed è con la stessa leggerezza dissociativa che si commissiona una esportazione di democrazia in qualche angolo del mondo. L’importante è che qualsiasi cosa si faccia si chiami “umanitaria” e non sia troppo brutale nelle apparenze.

La cosa che reca disgusto non è che qualcuno muoia, bensì è che ci sia qualcuno che lo faccia materialmente, qualcuno che sfidi il pudore pubblico e si faccia la bistecca da sé. Che barbaro!

Quando si fa notare che il proprio stile alimentare nuoce molte più vittime di quelle che nuocerebbe cacciando, si possono analizzare delle interessanti reazioni: la prima è generalmente auto-referenziale “Ma come! non la pensi come tutti gli altri? E’ orrendo, non vedi?”; appena riaffiora un barlume di ragione si cerca di descrivere in modo razionale l’”obiettiva” crudeltà della caccia, ma quando si fa spiega che nascere in un lager e morire in un lager è senz’altro peggio che essere sparati in un bosco, allora ecco fuoriuscire il rigurgito sentimentalista: “sei cinico, non hai cuore!”.

Ci si sofferma sulla brutalità di un gesto, senza guardare oltre.

Questo aspetto è tremendamente pericoloso perché riflette una società che della contestualizzazione e della lungimiranza ha perso ogni cognizione.


“Felici” suini d’allevamento, durante il processo dissociativo che li vedrà cambiare nome da “suini” a “hamburger/bistecche”ecc.

Voyeurismo, sensi di colpa, repressione della violenza, impossibilità di usare la ragione a lungo termine. Segni, questi, che devono fare preoccupare.

Non sorprende quindi che proprio la più pura, la più umana e naturale forma di approvvigionamento di carne, nonché quella che garantisce una morte immediata e una vita felice all’animale garantendo una qualità alimentare nettamente superiore, sia per l’appunto anche la più condannata.

Oddio! Una povera balena incinta è stata uccisa da quei dannati giapponesi” disse con le lacrime agli occhi colui che trangugiava il suo hamburger di vitello morto lontano dai riflettori.

Si trova giusto procurare su delega la sofferenza e la morte di un maiale piuttosto che procurargliela in natura da libero e felice.

Già, perché una finisce sulla retina degli occhi della Pietà, la seconda no. L’altra finisce sulla tavola delle persone per bene.

TAG: abolizione della caccia, alimentazione, allevamenti intensivi, balene, caccia, dissociativo, distaccamento, impulsi, industria della carne, pulsioni, referendum caccia, sesso, società, sociologia della cultura, vegan, violenza
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