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Il signor Rossi e le elezioni a luglio

| 8 Maggio 2018 | POLITICA

Subito al voto, chiedono la Lega e il M5S confidando nell’effetto plebiscito che registreranno i rispettivi schieramenti. Cosa c’è dietro questo “wishful thinking”  (tradotto a Roma: je piacerebbe), e dietro la polarizzazione del dibattito a voto-ballottaggio tra Salvini e Di Maio?

Forse contano entrambi nell’effetto-mondiali. Perché tra il 14 giugno e il 15 luglio gli italiani saranno in crisi d’astinenza da tifo: l’Italia non giocherà. Un affronto sul quale pesa l’incognita della reazione dell’italiano medio. Chiamiamolo signor Rossi, tanto per non concedere nulla alla fantasia, e immaginiamo che abiti a Roma. In quel mese cruciale di campagna elettorale ininterrotta, gli scenari possibili per il signor Rossi sono due.

Scenario numero uno: livido d’invidia per il genuino e colorito tifo espresso dal vicino di casa, un pizzaiolo egiziano di nome Abdul, mentre vede la diretta di Egitto-Uruguay il 15 giugno, il signor Rossi decide di proiettare la sua vis calcistica frustrata sul futuro inquilino di Palazzo Chigi. E non solo si schiera immediatamente a favore di uno dei due, Salvini o Di Maio, ma comincia ad arringare gli amici al bar. I colleghi in ufficio. I compagni di calcetto. I genitori dei compagni di suo figlio alla pizza di fine anno scolastico. Minaccia la nonna di non portarla a Ladispoli ad agosto perché gli dice che voterà per Renzi, se no “poverino, non lo vota nessuno”. E siccome non c’è un arbitro con cui prendersela, deve trovare un altro capro espiatorio. Allora comincia a insultare un giornalista schierato “contro” (ha solo l’imbarazzo della scelta). O il leader del principale partito dichiaratamente all’opposizione, il PD (se riesce a identificarlo). Chiunque gli comunichi che a luglio, elezioni o no, partirà in vacanza.

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Scenario numero due: depresso e apatico perché Abdul può’ tifare per la sua squadra e lui no, il signor Rossi chiude le finestre nonostante il caldo afoso e mette la musica a tutto volume. Si scola tre birre una dopo l’altra senza aver toccato neanche una fetta della pizza che Abdul gli ha gentilmente lasciato davanti alla porta per neutralizzare le proteste, anticipando che il suo  esuberante tifo avrà qualche decibel di troppo. Stordito, si abbatte sul divano davanti ad un noiosissimo programma di approfondimento politico. Si deprime sempre di più, non capisce niente di quello che sente e sprofonda in un sonno agitato, turbato da un incubo dal quale si risveglia con il volto imperlato di sudore: l’Italia che non si qualifica neanche ai prossimi mondiali.  Al sorgere del sole, ha chiara la strada davanti a sé: fuggire il prima possibile da una città ingrata che gli offre solo afa e tifo che non gli appartiene.

Nello scenario numero uno, il signor Rossi andrà a votare, eccome. Indossando una maglietta con sopra scritto il nome del candidato premier che vuole vedere a Palazzo Chigi. E voterà tumultuosamente, appassionatamente, fideisticamente.

Nello scenario numero due, il signor Rossi non andrà a votare. Chiede e ottiene le ferie a luglio invece che ad agosto. Ai primi di luglio va a Ladispoli. Schiumando perché trova dodici chilometri di fila sull’Aurelia, fuori ci sono 35 gradi e l’aria condizionata della sua Fiat Duna ha esalato l’ultimo respiro nel 2001.

Il calcio insomma, anche quando non gioca l’Italia, continua a dominare l’approccio degli italiani alla vita.  Perché Arbore sbagliava: la vita non è tutta un quiz e gli italiani non sono un popolo di concorrenti. La vita è quello che passa tra il fischio d’inizio e il fischio finale su un terreno di gioco di lunghezza compresa tra i 100 e i 110 metri e largo tra 64 e 75 metri. E gli italiani sono un popolo di tifosi.

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